Il primo Re – Matteo Rovere e l’origine di Roma in stile graphic novel
Il film ambientato nel 753 a.C. racconta il mito fondativo fratricida dell’impero romano.
Romolo e Remo, fratelli simbiotici che da agnelli diventano lupi.
La forma è quella della graphic novel, i tagli di inquadratura si pongono su quel tono dark/estetizzante che lo spettacolo cine/televisivo contemporaneo richiede, si pensi a Valhalla Rising1 o semplicemente al Trono di spade2. In terra sarda era uscito qualcosa di simile nello stile (crudo) e nell’intento, raccontare il popolo primitivo in chiave fantasy-action: il cortometraggio Nuraghes S’Arena’3 di Mauro Aragoni, con protagonista il rapper Salmo.
Matteo Rovere è anche produttore, soprattutto verrebbe da dire, perché ha l’occhio attento di chi prende spunto efficacemente da ciò che lo circonda e i riferimenti agli epigoni americani nei suoi film, sia girati che prodotti, ne sono la prova. Esempio ultimo è il precedente film da lui diretto Veloce come il vento4,dramma sportivo che era un mix tra Rush5 e The fighter6, dove Accorsi reinterpretava il tossico allenatore redento, mimando il Christian Bale oscarizzato. C’è italianità, certo, soprattutto nel contenuto, ma la forma tende ad uno spazio più ampio dal respiro internazionale, tranello che il cinema di genere porta sempre con sé.
Negli anni 10 si voleva fare il botto con Cabiria7, si torna sempre lì alla ricerca del kolossal, prendendo spunto da una fonte inesauribilmente accattivante quale è la Storia.
La mitologia fa sempre gola, e la regione Lazio non può non farla da padrona, e così insieme a Rai cinema e al Belgio promuove questo progetto ambizioso sul (suo) primo re.
Roma, epicentro industriale del cinema italiano, è da un paio d’anni che prova il ri-generamento di nuove dinamiche produttive diverse dalla commedia, unico genere italico intramontabile (nel bene e nel male). E allora se non è romanesco è proto-latino, timbro d’autenticazione capitolino, lingua arcaica che riveste d’aura epica/mitologica l’atmosfera del film, affiancandosi, anche per la feroce spettacolarizzazione, al cinema brutal-realista di Mel Gibson, da Bravehearth8 ad Apocalypto9 passando per The Passion of the Christh10.
Parafrasando Hobbes, gli uomini lupi figli della lupa vivono allo stato brado, non è un caso che uno dei corti di Rovere, con protagonista Filippo Timi, si intitoli proprio Homo homini lupus11, essi si guerrigliano come bestie nella cornice di un misticismo primitivo e spietato. La prima parte è maschia e muscolare, figlia indiretta del fortunato genere degli albori, molto italiano, quale è il peplum degli Ercole e dei Maciste. Così all’inizio abbiamo Remo/Spartaco, un fagocitante Borghi che primeggia sul drappello di azzeccate comparse che formano il resto del branco, da segnalare Fiorenzo Mattu il Cristo sardo di Su Re12 di Giovanni Colombo, giusto per rimanere in tema di passioni regali e Sardegna.
Il vero asso tecnico di levatura internazionale è la fotografia alla Lubekzi di Daniele Ciprì, ci riferiamo soprattutto a The Revenant13 e The New World 14, che utilizza la luce naturale come uno strumento di evocazione religiosa, e tramite fiamme e bagliori oscilla nel buio più tetro, tra l’oscura maledizione e l’accecata metafisica. La sopravvivenza nella foresta richiama al capolavoro di Herzog, Aguirre, furore di Dio15, anche lì il fiume era centrale e la natura feroce, il Tevere è infatti ripreso come un fiume amazzonico, bruto e vergine, specchio dell’irrazionale nei suoi tumulti e sfondo asfissiante nei suoi acquitrini. In questo caos Remo attraverso il sangue si erge a capo branco, divenendo prima gladitore16 e poi Re-Nerone ante-litteram, il potere conquistato con la forza e la paura è il fondamento dell’impero. Dall’altro lato della medaglia c’è l’amore viscerale per il fratello, il sacrificio, il lupo che torna agnello o meglio l’uomo che muore in quanto non divino. L’abbandono della fede coincide con la perdita del potere, il compimento dell’ineluttabile destino del Prometeo/Remo è tanto superomistico quanto tragico. Così sarà Romolo, il protetto, il debole, il predestinato che dalla cenere torna alla vita, a sostituire e assimilare il fratello, unendo i due poli nel segno del fuoco che brucia, fondando la civiltà con il prezzo del dolore, inflitto e da infliggere: uccidere per rinascere, l’agnello che diventa lupo.
All’orizzonte si intravede il corpo confuso dei sette colli, con lo sguardo fisso nella brace ci si chiede: “C’è veramente Dio in quel fuoco?”
(saggio premiato alla prima edizione del Premio Lino Miccichè di Critica cinematografica al 55 Pesaro Film Festival)
1Vallhalla Rising – Regno di sangue, N.W. Refn, 2009
2Game of throne’s, serie tv Hbo, creata da David Benioff e D.B.Weiss, 2011-2019
3Nuraghes S’Arena, Mauro Rangoni, 2017
4Veloce come il vento, Matteo Rovere, 2016
5Rush, Ron Howard, 2013
6The fighter, David O. Russel, 2010
7Cabiria, Giovanni Pastrone, 1914
8Bravehearth – Cuore impavido, Mel Gibson, 1995
9Apocalypto, Mel Gibson, 2006
10La passione di Cristo, Mel Gibson, 2004
11Homo homini lupus, Matteo Rovere, 2006
12Su Re, Giovanni Colombu, 2013
13Revenant – Redivivo, A.G.Inarritu, 2015
14The New World – il nuovo mondo, Terence Malick, 2005
15Aguirre, furore di Dio, Werner Herzog, 1972
16Il gladiatore, Ridley Scott, 2000
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