Vola con quanto fiato hai in gola
Vola, con quanto fiato hai in gola. Lorella Cuccarini.
Che fico che era stato quel casting, un sacco di bambini tutti diversi e tutti uguali, era per lo spot di una famosa maionese, tanti bambini uno in fila all’altro stavano seduti su delle sedie di tela ripiegabili con le quali era stato tappezzato il lungo corridoio che portava nella caverna di Alì Babà, il set del regista.
Lo spot era di un famosissimo marchio, il regista ti faceva il provino, se fossi andato bene saresti finito in Paradiso, sullo schermo, Michele ci finì subito, all’età di nove anni.
Quello spot portò ad altri spot con lo stesso marchio, la trama era pressappoco sempre la stessa, con qualche brillante variazione sul tema approntata dallo stuolo di pippatissimi pubblicitari di Milano che non ne sbagliavano una, i migliori.
Nel primo spot la mamma, che era una fica della madonna meglio di Susanna Messaggio, ma era vestita come una casalinga, parliamo del 1986, alcune donne stavano ancora a casa, l’uomo guadagnava spesso per due in milioni di lire e si proveniva tutti, senza dirlo, dalla campagna, da quelle antiche madri che stavano solo in cucina, quello spot era lì a ricordare a tutti che non si dovevano vergognare del luogo dal quale venivano, di quei tempi che si faceva la maionese in casa, che non dovevano più faticare in cucina e che il loro bambino era il più bello del mondo e che anche loro lo erano, belle da morire, belle come quell’angioletto di Michele, bello di mammà, che dopo aver spremuto su due fette di pan carré col prosciutto il prezioso tubetto, faceva da sé un bel panino, dava un morso e baciava la mammina che smetteva di sbattere la maionese a mano e leggeva negli occhi del figliuolo tutta la gioia e la felicità di arrivare a casa, trovare il panino già pronto e senza nessuna fatica, tanto che avrebbe potuto farlo un bambino, spruzzare un poco di maionese dal tubetto, è buonissimo mamma, bacio; il successo è una cosa semplice, basta che sei fotogenico.
Fu la svolta, Michele che era il più bello della scuola elementare e che aveva già due fidanzatine in due classi diverse e una nella sua, fu proiettato in un mondo fantastico, lo spot fu celebratissimo, tanto che un famoso regista lo mise in un suo film che fu visto in tutto il mondo, Michelino faceva la parte di un bambino italiano ebreo che scappa dai nazisti e si inventa un mondo tutto suo attorno ad un lago dorato, una coproduzione tra Italia, Francia e Stati Uniti, il film vinse l’Oscar, il volto di Michele bello balzò in mondovisione in pochi anni, aveva undici anni Michelino bello quando prese parte al kolossal, erano gli anni 80 e la gente andava ancora al cinema a commuoversi, a Michelino scrissero lettere da tutto il mondo, prese parte a numerosissime trasmissioni TV, aveva il numero di telefono di Pippo Baudo, proprio il numero di casa, il grande Pippo nazionale non aveva potuto dire di no dietro le quinte a Domenica In, Micheluzzo nostro lo chiamava almeno una volta a settimana, si era pure fatto dire il prefisso di Roma, lui che era di Milano, ma ve lo pensate chiamare Pippo Baudo?
No, io non riesco ad immaginarmelo, chissà che si dicevano, eppure era proprio così, nessuno a quell’epoca si negava a Michelino bello superstar.
Una volta finì nel camerino di Lorella Cuccarini, sbagliò porta e la vide in mutande e reggiseno mentre andava a prendere un abito, Lorella non si imbarazzò di un bambino.
Gli disse soltanto: “che ci fai qua?”
Michele, che aveva sempre la battuta pronta disse così, senza pensare: “facciamo una festa?”
Fece ridere persino la Cuccarini, che dopo essersi vestita gli diede un bacetto sulla guancia, Michele se lo ricorda ancora adesso, fu la prima donna in déshabillé che vide in vita sua, se la immagina ancora adesso Michele nostro la Cuccarini con le mutande nere e il reggiseno di pizzo, una visione surreale, rimase impressa nella sua mente per anni, ogni tanto, come un lieto sogno, gli appariva la Cuccarini in mutande, lui l’aveva vista, voi no.
Tantissimi gli scrivevano, tanto che aveva un ufficio stampa perché non poteva rispondere a tutti personalmente, dopo l’Oscar gli arrivarono lettere da tutto il mondo.
Una lettera colpì particolarmente uno dei ragazzi dell’ufficio stampa, veniva addirittura dalla Mongolia, era scritta in un inglese un po’ raffazzonato, ma pressappoco faceva così:
“Caro Michele, mi chiamo Gerelma, ho undici anni come te e questa lettera me la sono fatta scrivere da mio fratello che è nell’esercito e ha studiato le lingue straniere, l’ho pregato così tanto di scriverla per me, e lui dopo tanto l’ha scritta, non so se ci sarà scritto tutto quello che ti voglio dire e nemmeno se ti arriverà questa lettera e tu non mi potrai nemmeno rispondere anche se lo volessi perché noi non abbiamo l’indirizzo perché siamo nomadi, me lo ha spiegato mio fratello e ci sono rimasta malissimo, ma ho deciso che anche se questa lettera non avrà una risposta io te la voglio mandare lo stesso, in Mongolia non è molto semplice vedere i film, io vivo in un posto molto lontano, coi miei genitori ci spostiamo perché teniamo gli animali, qua fa molto freddo d’inverno e delle volte ci sono delle tempeste e non ci possiamo muovere dalla tenda, d’estate però la vita è più facile, e qualche volta se siamo fortunati capitiamo vicino a qualche paese dove ci sono i gelati, le pizze, e anche il cinema, mio papà mi ha portato al cinema perché mi vuole tanto bene, è così contento quando riesce a portarci al cinema!
L’anno scorso è riuscito a portarci due volte, una volta ho visto un film di pirati che non mi è piaciuto tanto, e uno d’amore molto bello, noi non abbiamo la televisione, anche se mi piacerebbe moltissimo averla, quest’anno sono andata al cinema a Giugno, appena ho avuto la possibilità e ti ho visto sullo schermo, caro Michele mio fratello ride mentre scrive la lettera e dice che tanto non ti arriverà mai, ma io da quando ti ho visto ti voglio sposare, mi sei piaciuto tantissimo quando scappavi dai tedeschi, mi sono tanto emozionata, avevo così paura che ti prendessero che ho pianto, anche se un po’ mi trattenevo, mio fratello dice che i tedeschi non esistono più, ma io quando ho visto il film non lo sapevo e ho pianto tantissimo, non lo sapevo ancora che ero innamorata.
Ti penso tutti i giorni mentre faccio la legna e mungo le capre e se sono vicina ad un lago o anche ad un fiume, penso a quel lago dorato dove stavi tu e a tutti i posti che tu ti immaginavi per scappare dai tedeschi.
L’altro giorno mi sono persa e mi ha riportata a casa un cavallo bianco che mi ha parlato, gli ho chiesto: cavallo incontrerò mai un ragazzo bello come Michele qua dove abito?
Il cavallo mi ha detto che incontrerò proprio te, che basta aspettare e desiderare tanto una cosa e il sogno si avvera, poi mi ha portato a casa, mi ha dato come un bacio e mi ha detto che è da parte tua.
Caro Michele, ti amo, ti amo, ti amo, l’altro giorno ti ho visto, eri su un treno che andava verso il Nord, sei passato nel nostro paese? Se ci ripassi per piacere vieni a cercarmi perché ti amo, noi viviamo nella provincia di Dornod, mio fratello dice che non è tanto grande, è la provincia più vicina alla Russia dice, mio fratello adesso dice che in due giorni di cavallo si può cavalcare tutta la regione e che se tu riceverai la lettera verrai sicuramente a trovarmi, ti prego non mi lasciare io sono già la tua fidanzata, ti mando tutto il mio cuore, Gerelma.”
L’addetto all’ufficio stampa fu commosso da queste parole, era un ragazzo di trent’anni, laureato in marketing, ma fu colpito da questa lettera e usando un poco d’astuzia decise di non dare la lettera a Michele e di tenerla per sé, perché? Perché forse gli piaceva particolarmente quella lettera o forse perché era stato educato a trattare Michele come un principe, come Buddha prima che uscisse dal palazzo reale, prima che incontrasse la miseria e la tristezza e diventasse santo.
No, Michele non avrebbe potuto mai capire, né lui avrebbe potuto rispondere, come delle volte faceva per alcune lettere che gli arrivavano dall’Italia o dall’estero facendo finta di essere Michele, era parte del suo lavoro rispondere ai fan, certo non poteva rispondere a tutti, ma chi riceveva una risposta sentiva in cuor suo brillare lo spirito di quel ragazzetto che piaceva così tanto, e piaceva così tanto perché non era vero, richiuse quella lettera nella busta e se la ficcò in tasca guardandosi attorno, non si poteva portare quel materiale fuori dall’ufficio, ma quella volta lo fece, la portò a casa sua, nella periferia di Milano, la lesse alla sua ragazza ed entrambi piansero di commozione, di gioia e di tristezza, gli occhi negli occhi, piansero e si abbracciarono davanti alla vetrata del loro bilocale che dava sul grande negozio di Blockbuster, due romantici a Milano.
Capitolo due
La vita dello splendido Michael, cui era stato consigliato un nome anglosassone da chi curava i suoi interessi, senza che ancora lui potesse avere il tempo di riflettervi, era semplicemente quello che gli americani definirebbero qualcosa di cool, fresca come una bibita.
Michael non sudava mai, stava sempre rilassato, se doveva incontrare qualche grande personalità dello spettacolo oramai la trattava alla pari, anzi con la spocchia di chi è arrivato prima di tutti, di chi non sa un cazzo ma ha tutto e sa tutto, ma che non lo sapevate che Michele bello sa tutto?
Che ve lo dico a fare, avrebbe detto lui, anzi non ve l’avrebbe nemmeno detto, ci sareste dovuti arrivare voi.
Fece una famosa serie tv che fu venduta in più paesi dove faceva il ragazzo delle medie ripetente, la iniziò che aveva undici anni, ma la finì che ne aveva sedici, ma come tutti i fichi veri di quell’età ne dimostrava di più, come descriverlo?
Era bello, biondo, muscoloso ma non troppo, bravo in tutti gli sport, ma veramente sacrificato in nessuno, c’era da giocare a pallavolo?
Michelino schiacciava forte in favore di telecamera.
C’era da fare una partitella, così per ischerzo a pallone?
Michelino dribblava tutti, la passava in mezzo e la punta che aveva davanti il portiere non poteva che alzare la palla a Micheal il magnifico che di tacco la buttava in porta, se fosse caduto da una nuvola del cielo sarebbe caduto su un covone di fieno morbido, a fianco ad una bella fica che interpretava la contadina.
Tutto era per lui spettacolo e tutto era per lui superfice, tutto ciò che era e faceva lo potevi vedere da te, sorrideva a tutti e a nessuno negava un autografo, preferiva sempre stare cinque minuti in più coi fan, poi ora lo conoscevano proprio tutti, la serie tv su quei bulletti che si facevano gli scherzi aveva raggiunto proprio tutti, anche le spettatrici delle telenovelas che non vanno mai al cinema.
Fu durante le riprese della serie tv che all’età di tredici anni, gli successe qualcosa di nuovo.
Aveva tredici anni appena compiuti, anche se sembrava un ragazzo di quasi venti, non frequentava praticamente più la scuola dell’obbligo, untuosi precettori privati lo seguivano sui set, molto ben pagati e omertosi sulle lacune culturali del nostro Micheal, che aveva imparato più geografia e storia nei suoi viaggi che nei libri di scuola, fu nei bagni di una di queste finte scuole ricostruite a Cinecittà che incontrò Vanessa, tedesca, sedici anni appena compiuti e un curriculum di tutto rispetto nella tv tedesca, l’avevano chiamata perché serviva da abbocco per il pubblico di quelle parti, che come tutte le platee di pubblico di tutto il mondo, preferisce sempre vedere un volto noto.
Vanessa pareva saperla lunga e se lo guardava il nostro Michael, era una bionda da urlo, alta sì e no dieci centimetri più del nostro Michele, che non era certo un tappetto, magra il giusto, bei seni le schioppavano in mezzo al petto mentre rideva.
Disse nel suo stentato italiano, (nella serie era doppiata): tu Michael Cim?
“Come? Disse lui sorridendo, da attore consumato, io sono Michael Cima, i’m Michael Cima, do you know me?”. Sorrisoni.
Si davano un tono ma erano dei ragazzini, eccitati di tutto.
“Io voglio parlare italiano con te, tu molto bello” sorrise arrossendo, limitava l’acne con la crema, ma la pelle, già non liscisssima, le arrossiva tutta di botto delle volte, al trucco correggevano il difetto e non si vedeva, sul piccolo schermo Vanessa era pazzesca.
“Ok, se preferisci…” disse Michele un po’ imbarazzato.
“Tu sei tedesca giusto?”
“Frankfurt” rispose lei tenendosi al lavello, ma con le mani che avrebbero voluto già andare altrove.
Lei che non sapeva bene cosa dire ad un certo punto disse, forse un po’ maldestra, ma d’altronde chi l’avrebbe giudicata? “io pipì, vieni con me.”
“Guarda che il bagno è di scena disse Michele, qui è tutto finto.”
Scocciata da questi convenevoli, alzò le spalle sbuffando e prese Michelino con sé, chiudendosi in bagno e facendogli vedere per la prima volta, quello che un attore bambino non aveva visto mai, la fica.
Si denudò completamente, aveva un corpo fantastico, teso come i suoi sedici anni, gli bastò un gesto per levarsi il vestito bianco e nero a righe verticali che indossava che le arrivava fino appena sopra il ginocchio, sotto era nuda.
Erano in pausa e le riprese sarebbero iniziate tra un’ora, scoparono fortissimo, Michele non sapeva come si fa, ma imparò subito.
Fu così che iniziarono una relazione, essendo così piccoli non avevano molta libertà di movimento, Michele la andava a trovare al suo albergo con il copione in mano e con la scusa di ripassare la parte, si potevano vedere solo lì, dopo le 20, dopo che erano finite le riprese e la tedesca aveva cenato, Michele il più delle sere per scopare non cenava, si dimenticava persino di mangiare, la fica della tedesca lo attraeva come miele, gli rimaneva appiccicata alle dita, l’odore di lei, il suo viso, il suo splendido teutonico viso, che sembrava non concedere nulla a nessuno, né poter avere mai un lamento, con Michelino tradiva ogni emozione, dal riso al pianto, dal godimento al disappunto, dall’alterigia al bisogno, non lo sapeva lui e non lo sapeva lei, ma su quel letto scorreva la vita vera, altro che la TV, si abbracciava forte a Michelino bello golden boy ed erano fidanzati, per sempre no?
No.
Durò fino ad agosto, alla fine delle riprese, fu lì che si giurarono amore eterno e di scriversi sempre, si scambiarono gli indirizzi e i numeri di telefono, lei tornò a Francoforte e lui a Milano, entrambi abitavano coi genitori, incredibile a credersi per due già famosi come loro, ma l’anagrafe parlava chiaro.
Si scrissero numerose lettere promettendosi sempre reciprocamente di vedersi, erano entrambi così giovani!
Non avevano ancora capito che quelle storie non avrebbero avuto nessun seguito, non ne avevano esperienza, oltretutto la tedesca non era stata riconfermata per la stagione successiva della serie, impossibile rivederla anche a settembre.
La madre di Michele che da lontano controllava tutto, la madre manager che aveva fatto di Michele un marchio di fabbrica, che trattava per lui assieme agli avvocati nelle produzioni, sorrideva di cuore mentre apriva le lettere del figliuolo, per poi chiuderle abilmente dopo averle lette, tanto da non farsi accorgere dal troppo innamorato Micheluzzo che le apriva regolarmente, controllava tutto come il capo di un’azienda, un’azienda d’amore visto che il prodotto in vendita era il cuore di panna di mammà, il suo amatissimo Michele, porca la miseria delle volte sembrava di stare in una pubblicità della Scavolini da quanto si volevano bene Michele e mammà, non avevano litigato mai, e lei gli concedeva tutto, non vi era motivo di farsi altre domande.
Michele nel week end tornava a Milano con la mamma in macchina, il papà, uomo pragmatico, non aveva mai lasciato il suo posto di quadro dirigente nella Pirelli, festeggiavano il ritorno di Michele accoccolati sul divano felici, bevendo un Amaro Ramazzotti con ghiaccio, lo berrai anche tu la prossima volta, gli diceva sicuro di sé il padre, un po’ scherzando e un po’ no, erano perfetti.
Era una sera di dicembre e le lettere parevano non bastare più a Michele l’innamorato, che diceva di voler andare in Germania, mamma e papà ridevano, lui se ne tornava in camera un po’ accigliato, ma risoluto nel farcisi portare prima o poi.
Fu così, che alla tenerissima età di tredici anni, Michele, che non aveva mai preso un mezzo pubblico in vita sua, ubriaco d’amore, finì una sera su un taxi con due amici che cercavano la bamba a Milano, lui che voleva soltanto rivederla ancora!
Il più grande disse: stasera Michelino ti facciamo provare! Stasera ti facciamo fare un giro con la stupida!”
I due poco più grandicelli si guardavano e ridevano complici.
In dialetto milanese sei un bamba significa sei un cretino.
Si guardavano anche un pò circospetti cercando di camuffare usando il gergo tipico, bisbigliando, come se al tassista fosse fregato qualcosa, come se non avesse mai portato qualcuno a comprare la bamba a Milano!
Dovevano pur farla in barba a qualcuno! Altrimenti perché si trasgredisce, bisognava immaginare qualcuno di cui farsi beffe, i genitori? La pula! Quella sicuro.
Quella sera finirono in un quartiere di palazzoni grigi ad un’ora di macchina dal centro, al tassista chiesero di aspettare.
Michelino bello non era mai stato in un posto del genere, tanto più di notte.
Finirono a casa di un tale sui venticinque anni, ma che pareva reduce da almeno una serie di conflitti mondiali, aveva la barba incolta, le braghe corte e i calzini di spugna dentro degli infradito praticamente a pezzi, una maglietta dei Ramstein tutta scolorita e il modo di parlare tipico dei tossici, non riusciva neanche a darsi la pena di sembrare più presentabile di fronte a quei figli di papà che lo avrebbero ricoperto d’oro per qualche grammo di bramato stupefacente.
Lo spacciatore non era forse la persona più pulita del mondo, ma era educato.
Li fece sedere nella cucina lercia e disse loro: “ragazzi, volete qualcosa da bere?”
“Io un succo di ananas se c’è” disse uno della comitiva.
“Ma che dici cretino” bisbigliò l’altro, come per paura di offendere lo spacciatore, che non se la prese affatto ovviamente.
Michele sorrise, così d’istinto.
Lo spacciatore avrà avuto più dieci anni di loro circa, loro avevano dai tredici ai diciotto anni, erano le due del mattino ed erano in casa sua, avevano tutti e tre un po’ di soggezione, anche se Michele non troppo a dir la verità.
Senza aggiungere altro lo spacciatore versò a ciascuno di loro un bicchiere di birra da pochi soldi, accettarono ringraziando.
Un accennato grazie, cin, senza dire nulla.
Lo spacciatore proseguì con fare sincero e con la sua parlata biascicata tipica dei tossici disse: “ragazzi, mi dispiace che siete venuti a quest’ora, perché bamba non ne ho più, ho finito anche il fumo cioè, non so cosa darvi”.
I ragazzi non sapevano che dire, ma avevano fatto un’ora di strada e volevano drogarsi, per la Madonna.
Lo spacciatore era un ragazzo di strada, ma era un ragazzo educato, aveva quei tipici modi che ha quella gente che vive nei palazzoni grigi di periferia che tanto affascinano i ragazzi prima dell’età della ragione, non parlava con affettazione, non voleva sembrare un gangster, un rapper o quant’altro, era realmente così, forse suo malgrado, i giovani ricchi quella sera non erano in grado di rilevare sfumature, per loro quello era un uomo di rispetto.
Lo spacciatore si chiamava Salvatore, aveva provato a vendere meloni sul mercato ma gli era andata male, casini coi permessi, ma che ne sapeva lui di ste robe? Insomma multe e vaffanculo.
Voleva lavorare bene coi clienti, non si può perdere il lavoro, quasi un po’ si vergognava di essere rimasto senza roba a quell’ora.
Disse infine, con un breve sospiro, incerto: “raga, scusate, cioè scusate, io ce l’ho sempre la coca, lo sapete, si rivolse a Michael che non aveva mai visto e disse: il tuo amico Valentino lo sa, cioè io non sono mai senza roba”.
Silenzio. C’era aria di congedo e saluti di rito.
“Aaspettate, aspettate, cioè non so se vi interessa, ma c’ho una lista di cartoni che m’ha portato un mio amico da Amsterdam, cioè roba assurda, non ci potete credere, ce la pigliamo qua, se volete, me la piglio pure io con voi.
I cartoni era l’Lsd.
Michael non lo sapeva ancora, ma gli altri ragazzi sì, lui a volte aveva anche Lsd, pasticche, cercava di accontentare tutti.
Fu così che in tempo zero tutti si ritrovarono con questo francobollo allucinogeno sulla lingua, non appena calato il farmaco fu Michele a farsi avanti, con educazione: “quanto ti dobbiamo amico?”
Salvatore, che sembrava proprio un brutto ceffo pieno di tatuaggi e segnato dall’abuso di stupefacenti, ma era buono, disse: “ma dammi quello che vuoi”.
Michele tirò fuori dalla tasca un fermacarte dorato con una mazzetta di banconote da centomila piuttosto voluminosa, disse: “Duecentomila vanno bene?”.
“Ma sono troppi” disse piano il suo amico, imbarazzato.
“Ma no frè” il tamarro rise, dammi cinquantamila.
Michele aveva solo pezzi da cento,” tieni il resto” disse Michael sorridente, aveva ancora su gli occhiali da sole.
L’Lsd non costa come la coca, ma Michele non sapeva ancora nulla in quel tempo.
Erano tutti seduti sul divano dell’ampio e lercio salone di casa di Salvatore, il mobile che sorreggeva il televisore non c’era, era sostituito dalla scatola del televisore stesso.
C’erano Michele e i suoi amici Valentino ed Eriprando seduti sul divano centrale, ai due lati, su due poltrone marce sfondate c’era, alla destra di Michele Salvatore, con in braccio la sua ragazza, dobbiamo dire molto brutta, sull’altra poltrona c’era un cane, un alano nero che si chiamava Tupac.
Lo spacciatore faceva qualche moina alla fidanzata brutta seduta su di lui, l’alano geloso si insinuava tra i due che, come un padre e una madre lo accoglievano, giovani ma già grandi, a loro modo persone responsabili, un abbozzo di famiglia italiana.
Michele invece, che aveva tredici anni ed era una star, responsabile non lo era per niente, fu il primo ad essere travolto dagli effetti lisergici del francobollo, ad un certo punto disse: “Oddio tieni quell’alano, sta venendo verso di me, saltò rannicchiandosi sul divano vicino al suo amico”.
Eriprando e Valentino sorrisero imbarazzati, indecisi se sfottere apertamente l’amico.
“Ma no, no raga, il mio cagnone non fa niente, oh frè il cane non si è mosso di qui, ti sta salendo” disse con un mezzo sorriso il tossico.
“Je, facciamo pigliare bene i ragazzi”, vai a vedere se c’è ancora della vodka alla pesca.
La ragazza bruttina si alzò, tutta gentile, poteva avere vent’anni o anche trenta, aveva un sacco di piercing e tatuaggi sul corpo scarno, Michele, Eriprando e Valentino, tutti già allucinati nelle loro costose camicie bianche, non l’avrebbero toccata con un dito neppure dopo tre trip ma se ne tornò con tre bicchierini, i ragazzi ringraziarono, era gentile, la botta si faceva sentire, il soffitto in linoleum si stava liquefacendo su di loro.
Eriprando, da sempre molto timido, accennò sotto l’effetto plurimo di droghe e alcol alla ragazza un quanti anni hai.
Lei rispose “ventisette”
“E come ti chiami?”
“Jessica”
“Di che cosa ti occupi nella vita”?
“Faccio l’apprendista panettiera in un supermercato qua vicino” lo disse ridendo, senza alcuna sfumatura, voleva solo essere gentile, ed era piacevolmente fatta.
Tutti ridevano per un nonnulla.
“E ti piace?” disse Valentino.
Sembravano dei cazzo di sociologi in erba fatti come cocomeri, se fossero stati un po’ meno fatti e con qualche anno in più sarebbero sembrati veramente dei cazzo di scienziati che vanno a studiare i poveri e i tossici, peccato che dentro quelle belle camicie bianche fatti lo erano anche loro.
“Sì” disse Jessica. Non un grammo di malizia adombrava il suo cuore.
Continuò dicendo: “Cioè si, minchia lo faccio perché lo devo fare, però mi trovo bene con i colleghi, sono tutti gentili, tranne una che scassa sempre il cazzo; infatti, quando c’è in turno lei mi viene l’esaurimento.”
Rise.
Vide i tre ragazzini come abbracciati tutti e tre vicini, vide il pavimento liquefarsi, provò ad andare in bagno, ma non si ricordava più dov’era, si addormentò ai piedi del cagnone, ogni tanto pareva risvegliarsi, toccava il manto del cane, come in estasi.
Michele si alzò, corse verso il telefono e disse: “voglio chiamare Pippo Baudo”
“Eh?” Fece l’amico Eriprando.
“Chiama chi vuoi frè, basta che se è un interurbana stai poco” disse fattissimo il proprietario di casa che non ricordava nemmeno il suo nome di battesimo, figuriamoci chi è Pippo Baudo.
Michele digitò un numero, disse con la voce da tossico:” Pronto ciao Pippo come stai? Volevo venire Domenica a Domenica In a salutarti ma i miei sono voluti andare sul Lago di Como.
“Ma chi cazzo sei?
Aho, Maria ma chi è sto scemo che chiama alle tre de mattina? “
Aveva sbagliato numero.
Gli altri nemmeno se ne accorsero, aveva fatto giusto il prefisso di Roma, ma aveva sbagliato una cifra.
Michele era in orbita, non diede molta importanza all’accaduto, abbracciò il suo amico Eriprando e gli disse: “ti voglio bene, ancora di più che a Pippo Baudo”.
Si abbracciarono tutti come commossi davvero, in un afflato lisergico e omosessuale.
Baci, abbracci, non la finivano più.
Eriprando chiese educatamente con gli occhi fuori dalle orbite: “C’è dell’altra vodka alla pesca?”
“No frè, mi spiace, ve la siete asciugata tutta” il tossico rise di brutto da solo sul divano contorcendosi quasi dalle risa, la sua ragazza pareva dormire e accarezzare il cane allo stesso tempo, con una mano delicata, lentissima eppure sapiente, gli allisciava il pelo.
Uscirono di lì che era mezzogiorno passato, il tassista era ancora lì, incazzato nero, ma si dava un tono, sapeva che erano gente coi soldi, disse soltanto: “ragazzi vi devo portare a casa?”
Nel viaggio accennò al fatto che la sua sosta aveva un piccolo sovrapprezzo, essendo quasi dodici ore tra notte e mattina, disse che avrebbe dovuto chiedere un milione, sparò alto sperando di cuccare il milione.
I ragazzi si ravanarono nelle tasche, per primo Valentino, aveva solo trentamila lire, poi Eriprando che disse di aver scordato a casa il portafoglio, il tassista stava sudando freddo perché il terzo pivello dormiva come un sasso.
Dopo venti minuti il tassista provò di nuovo ad accennare ai tre: scusate, potreste svegliare il vostro amico?
“Altrimenti mi toccherà chiedere i soldi ai vostri genitori” disse come d’azzardo, con voce contrita e malferma.
I due ancora fatti provarono a scrollare Michele che non si svegliava, gli frugarono nelle tasche, aveva ancora la mazzetta di banconote da centomila, contarono i soldi, erano tre milioni di lire, ma chi cazzo gli dava così tanti soldi? Nessuno, Michele li aveva presi per uscire dal comò della mamma.
Diedero il milione al tassista che cercò di darsi un contegno, non gli pareva vero e reinfilarono gli altri due milioni in tasca all’amico.
Il tassista piano piano accompagnò ciascuno alla propria casa, accertandosi che fossero davanti al palazzo giusto e accompagnandoli di persona fino al portone, sorreggendoli se necessario, quanti amici ti fai con un milione!
Cadi sempre in piedi.
Il tassista mise il suo biglietto da visita nella giacca di tutti e tre i ragazzi, se avessero avuto bisogno di nuovo… Gli avrebbe portato anche la moglie, non la figlia però, a quella voleva bene davvero.
Capitolo tre
Fu così che Michele, il bellissimo Micheal, entrò ludicamente nel mondo della droga, da lì non smise più, la droga diventò una presenza costante, soprattutto la bamba, fece estati intere ad Ibiza strafatto, ogni cinque minuti arrivava qualcuno a chiedergli un autografo, non aveva ancora diciotto anni, non da molto tempo aveva preso a farsi la barba.
I suoi film per la TV continuavano, ma lui riusciva bene a gestire la coca, sua madre ogni tanto gliela trovava in tasca, il padre era meno attento, ma alla madre non sfuggiva nulla.
Una ramanzina?
Ma nooo.
Chi non si era fatto un tiro di coca nella Milano da bere degli anni 80? Nella Milano che conta.
Anche lei col marito o con qualche occasionale lover, aveva fatto un tiro.
Fu ad una festa a casa dello stilista Valentino che aveva provato per la prima volta, certo lei era un po’ più grandicella del nostro acerbo eroe alla sua prima sniffata, ma a Milano la vita pareva correre, ancor più a casa di Michael bello sguardo.
C’è da dire che Micheal non arrivava mai sui set strafatto.
Il problema fu quando iniziò a bere regolarmente.
Fu una cosa graduale e complementare alla coca.
A vent’anni anni abitava ormai da solo, in un attico sui Navigli e si svegliava con un Jack Daniels.
Alcol e droga, alcol e droga, alcol e droga, senza soluzione di continuità.
Michele aveva, come Vasco, il fegato spappolato.
Fu in una trasmissione con il suo amico di sempre Pippo Baudo che, completamente ubriaco, mise in imbarazzo tutti gli astanti.
Il Pippo nazionale cercò di fare segno al cameraman di non inquadrare Michele, ma la frittata era fatta, il giorno dopo in TV nelle trasmissioni sceme non si parlava d’altro.
Ci fu un paparazzo figlio di puttana, di quelli che tenevano sempre un paio di foto in un cassetto per tirare su uno scandalo, che andò a tirar fuori degli scatti della scorsa estate ad Ibiza ed altri scatti fuori da dei noti locali milanesi.
Scandalo.
Da allora fu un alternarsi di centri di disintossicazione e parti sempre più scarne nei film per la TV, Michele era diventato umorale e faceva il divo, si presentava tardi, con gli occhi gonfi sui set, puzzava d’alcol e non si curava di chiudere la porta quando sniffava in bagno.
Le chiamate si ridussero in pochi anni allo zero.
Che fine aveva fatto l’enfant prodige che scappava dai nazisti e sognava?
Che aveva fatto sognare tutto il mondo con le sue meravigliose fantasticherie, tanto da ricevere il premio Oscar, nessuno che ricordasse lo sceneggiatore, che con la crisi del cinema si dovette adattare a fare le pubblicità.
Il regista invece veleggiava ancora alla grandissima su maxiprogetti con gli americani, stronzate insomma, che però tiravano su sempre un notevole pubblico, si atteggiava a guru e faceva un film ogni cinque anni ormai, molta critica lo osannava ancora, memore dei suoi film passati, la qualità dei suoi film era calata, ma non i suoi incassi, intervistato sull’incresciosa questione anni dopo, alla fine del millennio, nel 1999, disse di serbare un bel ricordo di Michele e di non averlo più visto da allora, disse testuali parole, che a tutti, persino a me, parsero vere: “ mi dispiace che il povero Michele sia finito nel tunnel delle sostanze, io lo immaginai davanti ad un lago ad inventare mondi fantastici di elfi ed ippogrifi, a salvare volando bambine quasi annegate, vendicatore di contadini tiranneggiati dai feudatari, in qualche modo un eroe per tutti gli oppressi, un simbolo di riscossa, ma anche di leggerezza, Michele aveva la capacità di sdrammatizzare tutto con il suo bel sorriso, tutto finiva bene in quella storia, anche se pareva partir così male, con i nazisti alle calcagna dei genitori del povero Michele e di tutti gli ebrei come lui, dispiace che Michele abbia invece tristemente ricalcato la parabola inversa, da privilegiato si è trasformato in oppresso.”
Fu nell’estate del 2000 che, solo come un cane e mangiato come un tossico della stazione, alla tenera età di venticinque anni, già completamente bruciato, sua madre, che per anni si era disinteressata a lui, vergognandosene, decise per pietà di riprenderselo in casa.
Fu da allora che Michele quasi non uscì più di casa.
Usciva solo per andare dal supermercato e dal medico, non più un amico, non più una donna.
Al supermercato andava per comprare gli alcolici, che la madre, assieme ai medici, gli aveva vietato, se li comprava di nascosto e li consumava al parchetto vicino casa, non poteva permettersi droghe, la madre gli dava i soldi contati per fare la spesa e i soldi a questo punto erano davvero contati.
Acquistava whisky di quarta scelta, birre da tre lire, vino nel cartone, tutta roba che non poteva portare a casa, pena gli schiaffi e le grida della madre.
Il padre si era totalmente disinteressato alla vicenda e abitava ora con una giovane brasiliana, aveva mantenuto durante tutta la parabola di ascesa e caduta di wonder Micheal un sano distacco.
Non aveva creduto né alle potenzialità da attore del figlio, sotto sotto facendo ventilare l’ipotesi che sarebbe potuta finire presto e che non era il caso di montarsi la testa, né a tutte quelle stronzate da esaltata che andava dicendo la madre, si erano separati prima che Michele iniziasse a bere molto.
Il padre aveva sempre mantenuto il suo lavoro in Pirelli e anzi, era salito di livello, se qualcuno gli chiedeva diceva solamente che suo figlio era un asino.
A struggersi davvero era la madre, la madre che era stata la manager di Micheal, un sorriso luminoso come quello della Cuccarini, negli anni gradualmente spento, dagli anni e dagli insuccessi, la madre si era inabissata con lui, frequentava uno psicoterapeuta che dava sempre risposte molto vaghe, ma concilianti.
Ogni volta la povera donna, alla quale Michele aveva fatto venire i capelli bianchi prima del tempo, si confidava e usciva sollevata dallo studio dello psicologo; tuttavia, Michele non la smetteva di bere, se ne accorgeva dall’alito e dalla faccia da trucido che gli si era formata, come una smorfia, un precoce scontento.
Aveva smesso di mandarlo a fare la spesa, ma lui usciva lo stesso e rubando quelle diecimila lire che teneva nel cassetto, si comprava più alcol che poteva, non c’erano più mazzi di banconote da centomila nel cassetto, non c’erano più.
Nel 2003 cambiarono casa, l’avvento dell’euro aveva fatto raddoppiare tutto, vendettero quella meravigliosa casa di duecento metri quadri ed andarono ad abitare in un quartiere popolare in una casa con due stanze, un bagno ed una cucina con la differenza dei soldi avrebbero potuto viverci ancora trent’anni, senza vizi ovviamente, la mamma di Michele temeva che in quel quartieraccio il suo pargoletto avrebbe potuto coltivare malsane frequentazioni.
Lo confidò allo psicologo, il quale invece che dirle: manda lui da uno psicologo invece che andarci tu, piuttosto trovagli un cazzo di lavoro e guarda che gli altri non frequentino lui, si limitava a dire: certo, certo, capisco, tutto sta nella precocità con la quale Michele ha avuto tutto, ha avuto tutto e ha dato tutto per scontato, quest’ultima frase la donna la ripeteva spesso al professionista della salute, e lui ripeteva il mantra della donna con altre parole.
Invece di dirle che era suo figlio quello da non frequentare per quelli del quartiere, gli diceva che sì, bisogna stare attenti e non abbassare la guardia, non la contraddiceva mai, parole, parole, parole, e soldi, una volta la signora pianse e fece una sceneggiata terrificante davanti al calmo psicoterapeuta riguardo il denaro, disse di essere disperata e di non sapere quanto avrebbe potuto tirare avanti con un figlio del genere, anche lei si guardava dal lavorare, lei aveva fatto richiesta solo ad alcuni ex amici nel mondo dello spettacolo, le erano state chiuse brutalmente le porte, disse ma io ho fatto da agente ad una star, potrei per esempio… non gliene fotteva una sega a nessuno.
La risposta dello psicoterapeuta una volta vomitati in un mare di pianto questi fatti incresciosi fu uno sconto di dieci euro sulle sedute avvenire, la sua flemma e le sue risposte rotonde ed inebrianti come un buon bicchiere di vino rimanevano invariate.
Ogni tanto tirava anche in ballo il rapporto con il padre, per Michele quasi assente, disse che non avendo un padre Michele si sentiva uno sbandato e ha sempre pensato di fare quello che vuole, ma erano sempre spiegazioni vaghe, la signora era contenta sotto sotto che lo psicologo parlasse in qualche modo male del suo ex marito, per il quale nutriva il tipico rancore dei falliti verso chi non lo è, lo psicologo lo sapeva e ogni tanto, senza esagerare, cum grano salis, come sanno fare loro, ci buttava li il discorsetto che avrebbe acceso il livore nella donna, il sacro fuoco del livore, non avrebbe osato odiare suo figlio che era tutta la sua vita, ma il suo ex marito sì, quello stronzo.
Lo psicologo non aggiunse mai chiaramente che Michele aveva fatto quello che aveva voluto perché in tenerissima età si era ritrovato con un mare di soldi in contanti che giravano per casa che lei si guardava bene dal controllare anche perché era spesso fuori, spesso anche lei fatta o ubriaca o a scopare con questo o quell’attore, si limitò a dirle che si, era giusto controllare il ragazzo nei suoi spostamenti, visto che il ragazzo non era evidentemente in grado di badare a sé stesso.
Si era costruita una bella gabbia dorata che pareva perdere pezzi d’oro ogni giorno… e rivelare un’ossatura di ferro nelle sbarre.
Insomma lo psicologo e Michele la tenevano per le palle, perché lei era una donna con le palle, o almeno lo era stata, ora era l’ombra della donna che fu, non voleva nemmeno relazioni, come in un lutto stava vicino al suo figliuolo, rivelando un sentire arcaico e sincero, si era negli anni imbruttita, come Michele, assieme a Michele, se non poteva manifestargli l’amore, gli manifestava tutta la durezza di una sua reprimenda, di un suo grido, di qualche sorta di punizione, come quando gli controllava gli scontrini, come quando lo faceva stare in casa quindici giorni di fila, non cambiava nulla, Michele ormai quasi defunto pareva non accusare, che cosa facesse tutto il giorno in camera era un mistero, nei giorni di clausura una volta aveva anche preteso di essere servito in camera, al sonoro vaffanculo della madre aveva aspettato che lei uscisse per prepararsi un panino con prosciutto e maionese, eh ma non era come nella pubblicità…
La mamma non ti voleva più bene, la maionese non serviva a nulla.
Ogni tanto, in qualche scatto di volontà, la donna soleva dire allo sciagurato pargolo: “tua madre ha due coglioni come i limoni di Israele!” e faceva il gesto eloquente con le mani.
Michele rimaneva di poco turbato e si richiudeva nella sua apatia, nessuno dei due aveva più rapporti con l’altro sesso, la madre sentiva ogni tanto Michele masturbarsi col computer e pensava quasi sollevata: meglio questo che quando mi torna con la puzza di Tavernello.
Le volte che Michele veniva chiuso in stanza non beveva, era come il carcere, così pensava lui, ma tanto ormai…
Quando usciva beveva di nuovo, non avrebbe saputo che altro fare, la sua mente e il suo corpo lo portavano appena possibile, al supermercato, quando pioveva forte si rifugiava a bere in qualche stazione della metro, lo si sarebbe facilmente scambiato per un clochard, ogni tanto chiuso in stanza aveva delle crisi d’astinenza nelle quali batteva forte la porta o spaccava qualche oggetto, non osava contraddire il divieto materno, aveva della madre stima, affetto e soggezione, soggezione che sconfinava spesso nell’odio.
Michele non usciva e non aveva amici, l’unico a ricordarsi di lui? L’unico a rispondergli ancora al telefono? Bud Spencer.
Di tutti i divi, gli attori di altri paesi e quelli italiani, i presentatori, i dirigenti e gli uomini importanti che aveva conosciuto, di tutte le vallette, le cantanti, le parrucchiere, le estetiste, le cubiste e le donne dirigenti d’azienda che si era scopato, di tutte le persone con le quali insomma aveva intrallazzato Michele nella sua turbinosa adolescenza, nessuno più.
L’unico che quando passava a Milano faceva un salto a trovarlo era il mitico Bud Spencer, Carlo Pedersoli per l’anagrafe, anche se Michele amava chiamarlo Bud, buddy quando stava in vena.
Avevano fatto due film assieme e Bud non si era scordato di quel ragazzo così simpatico, così umano, così divertente e accattivante, per Carlo alias Bud, che lo aveva conosciuto quando ancora non arrivava fatto sui set, Michele era nu bravu guaglione.
Una volta, tanti anni prima Carlo, scusate Bud, se lo portò a Capri una volta finito il film, fecero un giro per la piazzetta, poi Bud gli fece segno con la mano: no qua no.
Si inerpicarono per un sentiero collinare e scosceso molto ripido, Michele che allora aveva diciott’anni era molto colpito da come quel trippone di Bud camminasse deciso su per un sentiero che pareva non portare a nulla.
Il panorama era bellissimo, ma i due parevano veramente dispersi su un lato di una montagna, il sentiero praticamente non si vedeva più, dopo mezz’ora di cammino Michele chiese soltanto: “ma Bud dove stiamo andando?”
“Statte zitto e guarda dove t’ho portato”
Era mezzogiorno, faceva un caldo pazzesco e i due camminavano piuttosto velocemente su un sentiero quasi inesistente a picco sul mare, il panorama era davvero bellissimo, entrambi erano sudati marci, entrambi avevano camicia e pantaloni lunghi, la mattina avevano fatto la conferenza stampa a Napoli per il lancio del film, Bud proseguiva con il suo passo svelto, quasi di corsa, Michele gli stava dietro e rideva, all’epoca rideva ancora, rideva e pensava: ma dove mi sta portando sto matto.
Una capra sopra uno scoglio parve quasi sorridere ai due nel suo belato, accogliendoli in un posto altro, che non era la Capri che tutti conoscono, Bud per tutto il tempo zitto, ad un certo punto disse: “vedrai che tra cinque minuti ci sta una fontanella”.
Camminarono ancora un poco e come per magia, la capra si vedeva ancora in lontananza su quello scoglio, Michele si chiedeva come avrebbe fatto a balzare nuovamente sulla terra ferma, ci saranno stati due metri, ma fu un attimo perché immediatamente gli si palesò la fontanella, mai fonte fu più opportuna per gli assetati viandanti.
Dopo aver aspettato che Bud bevesse su per giù almeno un litro d’acqua e si lavasse in ogni punto del corpo aprendo l’enorme pancia al getto dell’acqua e sbottonando pure i pantaloni mentre diceva: mò me rinfresco e cosce!
Dopo questo splendido spettacolo, che, come spettatore, aveva solo il magico Michael, si potè bagnare il capo e bere un po’ d’acqua fresca e richiese: “ma dove andiamo?”
“Nun te preoccupà guagliò” Bud se lo guardò e rise, un poco sadico.
Camminarono ancora forse mezz’ora, non si sarebbe potuto dire, nessuno dei due aveva l’orologio e nessuno dei due possedevano telefono cellulare, a quell’epoca erano degli enormi apparecchi che comprava solo la gente di un certo tipo.
Immediatamente il sentiero si fece scosceso e ripido, Bud continuava a camminare velocissimo a picco sul mare, Michele correva dietro di lui un po’ tenendosi agli arbusti, finirono davanti ad una catapecchia in riva al mare, Bud disse: “ti ho portato al ristorante”
Dalla catapecchia tutta annerita, con dei pezzi di tetto mancante pareva non arrivare nessun segno di vita, se non un esile fumo che usciva da un comignolo.
Bud Spencer cominciò a gridare a sì e no venti metri:” Tonì, Tonì!”
“Ueee Tonino addò stai?”
Picchiò alla porta fortissimo che pareva buttarla giù.
“E se questo Tonino non c’è?”
“Tonino è ca” disse sicuro.
Aspettarono ancora qualche minuto e si palesò un ometto magro magro e piccino con un carico di legna sulla testa che subito s’apri in un sorriso.
Bud, hai portato un amico? Disse l’uomo sorridendo.
Poteva avere sessant’anni, ma anche averne mille, pareva un uomo senza tempo, nella casa non c’era nemmeno la televisione, avrà mai visto un film di Bud Spencer quest’uomo? Sarebbe stato arduo rispondere, non riconobbe affatto la giovane celebrità Michele Cima, che era su tutti i rotocalchi.
Bud quasi gridò con la sua voce tonante:” Tonì, come fai e cozze tu nun le fa nisciuno”
“Ma oggi non c’abbiamo cozze” disse tranquillo l’ometto.
“Ho preso delle orate stamattina Bud, non c’ho altro”
Iniziarono un pranzo gargantuesco. Mangiarono fino a sera, la pasta Tonino la faceva in casa, aveva pasta, polpi e persino degli avanzi di un pesce re pescato qualche giorno prima.
Disse “Mi dispiace che o pesce re ce ne sta poco”
“Sono venuti ieri na coppia de tedeschi se n’hanno l’hanno magnato quasi tutto, maronna quanto magnavano. Hanno lasciato qualche birra, a voi Bud.”
Bud dopo tre ore di pasto quasi in silenzio e dopo qualche litro di vino bianco della casa che sapeva essere di un viticoltore a pochi km da lì disse : “ ma sì, dacci una birra pure al ragazzo”
Alle 16 e 30 avevano finito coi primi, la birra fu come il digestivo per prepararsi ai secondi.
Il pesce re è un pesce gigantesco e raro, non ne rimaneva poco, ne rimaneva qualche kilo.
Bud non la smetteva mai di mangiare, il ragazzo parve accusare la seconda portata di pesce re.
“Chistu non tiene più famme” disse Bud Spencer sorridendo.
E prese il piatto di Michael, cominciando a mangiare voracemente quanto Michael non era riuscito a finire.
Michelino bello era alle prese con questa birrona gelata che si scolò in men che non si dica, verso le 18 disse: “posso farmi un bagno?”
Nella caletta non c’era nessuno, il mare era stupendo, da lontano si vedevano i faraglioni di Capri.
Bud mangiò ancora per un’oretta, prese un bel caffè con Tonino e saldato il conto, per la verità modesto a confronto della quantità e della qualità della roba mangiata, disse soltanto con un accenno di sorriso e i suoi occhi orientali: “Tonì, non cambiare mai”, si abbracciarono e si baciarono, Bud fece una nuotata, si asciugò, si rivestì e ripresero il sentiero per Capri.
Fu l’ultima volta che i due fecero una marachella assieme, si sentivano qualche volta, ma non si vedevano mai, Bud stava a Roma, Michele a Milano, sì e no una volta al mese o Bud chiamava a casa Cima, o Michele Cima chiamava Bud.
Così per molti anni.
Una volta, era un’afosa estate del 2002, Bud volò a Milano con il suo piccolo aereo che pilotava da sé e sul quale aveva fatto fare tanti giri a Michele e fece a Michael quello che nessuno gli aveva fatto mai, il discorso del padre, gli parlò in napoletano, la sua lingua madre, disse: “ Tu tieni na capa tosta guagliò, ma a vuoi finì con sta bottiglia, erano in un bar del centro, prese teatralmente una bottiglia di whiskey da dietro il bancone con le sue lunghe braccia e la sbattè sul tavolino, a vuoi capì o no che te stai ad ammazzà, a vuoi capì Michele!
Io ne ho visti tanti e più grossi di te cadere in terra per questa merda e pure pè quell’altra polverina che ti pigliavi sempre, nun me fa fesso o so che a pigliavi, disse a Michele che cercò per un attimo di negare.
“A devi finì, a devi finì” lo scrollò ancora.
Michele rimase attonito, lo sguardo nel nulla, completamente apatico, un vago senso di colpa lo angustiava in quegli istanti, ma era un attimo, Michele era andato, come bruciare col napalm dell’uva ancora acerba, di quel ragazzo che Bud aveva conosciuto non era rimasto niente.
Venne a trovarlo ancora diverse volte, pregandolo di smettere, gli trovò anche un lavoro nel piccolo aeroporto per velivoli leggeri che Bud frequentava quando veniva a Milano, nel bar.
Michele lo guardò come si guarda un foglio con una multa.
“E che te pensavi de fa er cinema?” Disse Bud, nel suo italiano che veleggiava tra la compostezza dell’italiano studiato a scuola, Bud Spencer era laureato, e il romano con il napoletano, due dialetti che mischiava spesso quando si infervorava.
Michele non disse nulla ma voleva dire: sì, io penso di poter fare ancora il cinema.
Gli rispose Bud e non usò guanti di velluto.
“Ma te sei visto o noooo? Pari i tossici che stanno alla stazione, ma comme faccio a portarti sul set, manco a cumparsa te posso fa fa, fai schifo a o cazzo Miché, e ti va buono che il proprietario del bar è amico mio, ti ho tanto raccomandato, ho detto che sei nu bravo guaglione, che fatica, suo fratello fa l’elettricista sui set, nun me lo po’ negà sto piacere”
Micheluccio partì con questo mesto lavoro di addetto al bar, durò meno di un mese.
Saputo del licenziamento Bud gli telefonò incazzato nero, un mese dopo gli recapitò una busta con diecimila euro in contanti ed una lettera brevissima: “ non ti far più sentire, m’hai rut o cazz.”
Molti anni dopo, non appena appreso della morte di Bud Spencer, lo spaesato Michele decise che doveva partire per Roma ed andare ai funerali, era il 2016.
Il viaggio a Roma parve per un breve periodo far riaffiorare la vita nell’ex golden boy del cinema italiano, Michele parve per un attimo, se non esattamente ricordare, sentire.
Al funerale c’erano tutti, c’erano pure la Cuccarini e Pippo Baudo, a qualche panca di distanza, la Chiesa era bellissima e gremita di gente fuori e dentro, durante l’omelia Michele pianse, anche lui avrebbe voluto essere amato da tutti per tutta la vita come Bud Spencer, pianse molto quel giorno per Roma, non toccò un gocciò d’alcol, Roma lo inebriava, ogni angolo di Roma lo inebriava e lo commuoveva, gli ricordava il cinema, gli venne in mente di quel party a casa di Alberto Sordi, lui avrebbe potuto essere ancora tra loro, se solo non avesse creduto che era tutto normale, normale pippare la sera, normale scopare due ragazze assieme appena conosciute, normale che il regista glissasse sui suoi occhi gonfi, dicendo: va bene, i primi piani li facciamo domani.
Tutto scusato, tutto dovuto, ma ad un certo punto la corda si ruppe e Michele rimase con il suo pezzo in mano, continuando ancora a tirare, pareva pazzo i primi tempi quando capì di non essere gradito, parve davvero impazzire, girava rosso di furia per le strade del centro di Milano, poi mano a mano le sostanze lo sedarono fino a farlo diventare circa un vegetale che cammina, quel giorno a Roma però qualcosa si era riaperto, i funerali dell’unico amico che gli era rimasto, non solo nel mondo dello spettacolo, ma nel mondo tutto, lo segnarono per sempre, piombò in una depressione funerea, tornò a Milano una settimana dopo spegnendo il telefonino e dormendo sotto i ponti del Tevere.
Fu vagando come un flâneur ritardato per la capitale che Michele parve riacquisire parte di sé stesso, maturare qualcosa come una tristissima accettazione, una dolce e tristissima accettazione, Roma era dolce e sguaiata come il fruttivendolo al quale Michele aveva rubato una cassetta d’uva, lo sentiva gridare, ma come in sottofondo, non gli importava.
Sbocconcellò quell’uva tutto il giorno sulle rive del Tevere.
Al ritorno la madre era furiosa.
“Brutto deficiente, dove sei stato? Ti pare il caso di non rispondere al cellulare per una settimana? Volevo quasi chiamare la Polizia” singhiozzò la donna, quando capì che non poteva picchiarlo, perché Michele la teneva.
“Sono stato ai funerali di Bud” disse quasi serafico il ragazzo.
“ E non rispondi al cellulare per una settimanaaaaa????????”
“Cretino!” la donna si mise di nuovo a piangere.
La sua vita parve tornare lentamente quella di prima, usciva per comprarsi il tavernello, sua madre lo insultava, tv, pornografia online, il profilo Facebook lo aveva subito chiuso non appena era uscito fuori Facebook, in men che non si dica finì nel mirino dei cosiddetti haters, gli odiatori del web, che non gliene perdonavano una e pareva divertirsi un mondo a farsi beffe di lui, tirando fuori foto equivoche, facendo acri commenti sul suo stato di salute, Michele rispondeva sempre più incazzato a tutti, finché decise di chiudere il profilo e non rispose più, ecco chi sono i fan, pensò, un momento prima ti amano, un momento dopo sei nella merda, e non ne esci più, fu così che si diede all’anonimato, anche virtuale.
Ed ecco che cos’era il mondo: ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo.
Madre e figlio vivevano un rapporto simbiotico, erano ormai una persona sola, con la voglia di vivere che si era quasi azzerata, sopravviveva in quell’umido grembo materno che era quel piccolo appartamento di periferia, nei loro sguardi, nei loro piccoli riti, guardare la Tv assieme, mangiare assieme, facevano ormai tutto assieme, quasi senza parlare, come bestiame destinato al macello, ignari di tutto, se una mosca si posava su di loro essi senza fretta la scacciavano, qualche volta la lasciavano stare lì, tollerandola.
Fu nel 2020 che scoppiò la più grande epidemia mai vista al mondo dai tempi della spagnola, nessuno aveva memoria di un fatto simile, nessuno aveva più memoria di nulla, né del fu grande Michele Cima, né del colera, che in Italia non troppi anni fa mieteva ancora vittime, qualcosa come questo però davvero nessuno poteva averlo visto mai.
In pochissimo tempo il Governo recluse la gente in casa, il terrore dilagò nelle strade lasciandole vuote, facendo accorrere la gente ai loro appartamenti, ecco che tutti vivevano come Michele e la sua mamma: assediati e pieni di paura.
Erano i primi giorni del lockdown.
Non che Michele e sua mamma dessero di norma molta importanza alle news, ma fu davvero impossibile, come tutti sanno, ignorare quella tempesta che si abbatté sull’intero globo terracqueo, si parlava di guerra, le ambulanze a Milano correvano come matte e non stavano dietro ai contagi, Milano e la Lombardia erano l’epicentro nazionale del dramma, Michele e la madre, già di loro scossi, caddero in un vortice di paura.
Michele e la madre adottarono un protocollo rigidissimo di pulizia e ridussero le uscite al massimo, si ingellavano in continuazione le mani, tanto che a Michele vennero degli sfoghi sulla pelle che lo riempirono ancor più di paura, si sentiva sudare, il Governo diceva che era qualcosa di terribile, ma che con il sacrificio di tutti ce l’avremmo fatta, si sperava in un vaccino, Michele e la madre si abbracciavano terrorizzati, quelle immagini di persone intubate alla tv parevano presagire l’inferno, parevano dare una forma plastica e reale a tutte le loro paure sopite, a tutta la loro rabbia, a tutta la loro indignazione, era come se qualcuno avesse bussato loro la porta, qualcuno che rappresentava l’autorità, e avesse detto: avete fatto bene a stare in casa finora, fuori c’è un pericolo enorme, siete stati i primi e gli altri non lo sapevano ancora, bravi.
La madre di Michele seguiva ogni ordine dato da Conte e Speranza, ogni virologo, delle volte andava in merda, perché i virologi davano pareri contrastanti, tutti però erano ora dell’idea che bisognava stare in casa e avere assolutamente una mascherina, cambiandola ogni giorno, la mamma di Michele faticava a trovare mascherine sempre nuove e si incazzava come una pazza in farmacia.
La mamma di Michele impose al pargolo di non uscire assolutamente di casa, disse guarda te la compro io qualche birra, ma non uscire, indossavano la mascherina anche in casa, la toglievano solo per mangiare e dormire, mangiavano separati per paura del contagio e pulivano tutte le superfici in continuazione.
La madre di Michele fece una sceneggiata alle casse del supermercato, quando una signora disse: “queste cose che dicono non sono mica vere, fanno quello che vogliono quelli là a Roma”
Qualche anziano nella fila per la cassa parve dargli ragione, scatenando l’ira funesta di Caterina, che cominciò a urlare e picchiare con l’ombrello la signora, bastò l’intervento di un pronto commesso a bloccare la donna, ma la vecchia voleva sporgere denuncia.
In poco tempo, in una Milano spettrale, con nessuna auto per la strada, si palesarono i Carabinieri.
“Signora, lei ha aggredito in luogo pubblico, guardarono i documenti, Esposito Concetta nata in Benevento il 23/05/1955, lei è la signora, aprirono il documento, Caterina Mambelli, nata a Milano il 24 Febbraio 1956”.
La madre di Michele, che si chiamava Caterina, per anni si era fatta chiamare Corinne ma nessuno la chiamava più così da anni, per Michele era semplicemente la mamma, per l’anagrafe Caterina Mambelli.
“La signora Concetta vuole sporgere denunzia” disse il militare.
“Seguiteci entrambe” disse l’altro collega indicando la vettura.
La signora Concetta che probabilmente non aveva voglia di passare delle noie giudiziarie, di pagare un avvocato e quant’altro, si limitò a dire altezzosa e ancora offesa per le urla e le ombrellate: “ se guesta signora mi chiede scusa davanti a duddi io ritiro la denunzia” così si espresse nel suo italiano incerto.
Il commesso si guardava la scena e non ci credeva.
La signora Mambelli Caterina fu costretta a dire: “mi scusi signora”, fece anche un leggero inchino, come in accenno di sfottere.
Gli sbrigativi carabinieri non notarono tale sfumatura e forse nemmeno Concetta.
Finì lì, e quasi morta dalla rabbia e dalla vergogna Mambelli Caterina se ne andò a casa.
Pochi giorni dopo, nonostante tutte le precauzioni di questo mondo, Caterina si prese il Covid.
I sintomi c’erano tutti, febbre alta, dispnea, cioè difficoltà a respirare, tosse, diarrea, vomito, Michele non faceva che chiamare il numero verde, al numero rispondeva una voce amica che alla terza telefonata in un pomeriggio si decise a mandare un’ambulanza.
Gli ospedali erano stracolmi, il personale al collasso.
Fu la mezza moribonda Caterina che davanti agli operatori della Croce Rossa e al medico ebbe l’idea di chiamare il vicino di casa infermiere che disse di poterle procurare una bombola dell’ossigeno il giorno dopo in ospedale.
I militi della Croce lasciarono alla famiglia una bombola e raccomandarono ad un emaciato e stanco Michele di assicurarsi che la mamma abbia sempre la maschera dell’ossigeno sul volto, di idratarla molto visti gli episodi di copiosa diarrea e assolutamente stare attenti a tutto.
Per il resto Tachipirina finché la febbre non fosse scesa e dieta molto leggera, non vi erano cure per il Covid, si potevano allora curare soltanto i sintomi.
Michele parve capire, senza dir nulla, ringraziò i militi della Croce, ringraziò il gentile vicino di casa che si prestava volentieri ed era una brava persona, dopo pochi minuti furono di nuovo soli, lui e lei.
Nonostante avesse poche forze, le richieste della madre erano continue e il più possibile assillanti, la madre era anche se mezza morta, il più possibile isterica e fuori controllo.
Voleva che ogni ora le fosse misurata la temperatura, voleva che Michele le asciugasse il sudore, che le idratasse il volto con del cotone bagnato e facendola bere a piccoli sorsi, che la accompagnasse a braccetto fino alla porta del bagno, dove Michele la aspettava cagare, aveva dalle dieci alle quindici scariche diarroiche al giorno, era molto debilitata.
Michele sempre più accigliato, parve chiudersi in un rassegnato mutismo, ma intanto in cuor suo covava sempre più rabbia.
Quella donna si era sempre imposta su di lui, prima col sorriso, come una gentile gallina dalle uova d’oro, negli anni del successo, poi sempre più inviperita nei lunghi anni dell’oblio, ora malata pareva una pazza.
Michele fu attraversato da questi ragionamenti senza capire bene, senza realizzare, provava realmente solo un cieco rancore, sua madre era tutto il suo mondo, il suo mondo di ritardato e il suo mondo faceva schifo, ora ancora di più.
Fu dopo aver lavato i piatti che la madre chiese un bicchiere d’acqua.
“Ma cosa fai, me la porti calda l’acqua? Ma sei pazzo? Ho la febbre a 38 e mezzo!!!! Ritardato!!!!” Gridò come un’aquila la madre.
Michele all’ennesima botta di ritardato sentì il sangue farsi caldo.
“Scusa mà, avevo appena lavato i piatti, mi è rimasta l’acqua calda”
“E stai attento noooo?????”
La madre continuava a blaterare.
Michele non ce la faceva più.
La madre si era rimessa la mascherina dell’ossigeno, poche ore dopo sarebbe dovuto arrivare il vicino infermiere con l’altra bombola di scorta.
Michele ebbe qualcosa come un raptus, quelle cose che fa la gente che pensa troppo e che poi smette di pensare e non pensa affatto.
Andò dalla madre con un cuscino, con freddezza gli tolse la mascherina e gli spinse sulla faccia il cuscino, impedendole di respirare, in un minuto circa morì.
Michele non aveva alcun senso di colpa, in carcere gli fecero l’esame del Covid, era negativo.
FABIO CANEPA
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