The Whale – Darren Aronofsky
Charlie è un professore di letteratura inglese specializzato in scrittura e analisi del testo, attraverso lezioni a distanza e a telecamera spenta espone con ottima disinvoltura agli studenti racchiusi in piccoli cubicoli dello schermo al cui centro domina una finestra nera che pian piano che il professore parla si allarga e ingloba tutta l’inquadratura. Una finestra prevalentemente chiusa che fornisce un giusto grado di separazione ma che, come quella dell’appartamento, si apre agli estranei per un piccolo spiraglio, mostrando come un corso universitario sia assimilabile ai pezzettini di frutta lasciati agli uccellini. Dal pc al corpo enorme a coprire i 4/3 di un’inquadratura stretta che riflette quello stesso anfratto di casa nel quale tutta la vicenda è ambientata. Charlie è interpretato da un Brendan Fraser “ingrassato” 130 chili grazie a trucco e protesi, è un uomo (balena) alla deriva della propria vita che cerca di riallacciare l’unico rapporto familiare al quale tiene e per il quale è disposto, in punto di non ritorno, a colmare quel lacerante spazio vuoto creatosi nel passato, ovvero la figlia adolescente (Sadie Sink) abbandonata all’età di 8 anni per seguire il vero amore provato per un altro uomo.


La balena di Aronofsky è l’ennesimo film simbolico del regista newyorkese, se nell’appartamento di “Madre!” L’apocalisse del conflitto universale si materializzava tutto all’interno, in “The Whale” la fine del mondo è un evento in arrivo a due passi dalla porta di casa di Charlie. Si parla molto in forma di credenza religiosa, soprattutto nella figura del giovane missionario della New Life, in termini di concreto disfacimento fisico nell’assuefazione per mezzo di una debolezza fisiologica per un appagamento istantaneo insaziabile, altro protagonista intercettato da Requiem for a Dream come l’ossessione e la dipendenza da sostanze, in questo caso il cibo che è il vettore del trauma psicologico.



L’Abitazione è rifugio e gabbia protettiva ma anche spirale degenerativa di dolorosi eccessi, volti a loro volta a riempire i solchi vuoti delle relazioni: il grande amore perduto, l’amicizia di un infermiera, unico vero contatto con l’esterno, o la voce di un portapizze al quale dare un nome e associare un viso. Spazi che un massa corporea occupa spostandosi a fatica reiterando il proprio male di esistere fisicamente. Il respiro in affanno e un cuore che non regge la mole espansa di lipidi sono i cardini per la messa in scena di un preannunciato martirio. I corpi dei film di Aronofsky sono questi simulacri di deterioramento esibito come per Mickey Rourke in “The Wrestler”, anche lui alla ricerca di un salvataggio disperato di un rapporto familiare, o per la ballerina Natalie Portman che ne “Il cigno nero” è vittima anche lei di un disturbo alimentare e dell’ossessione.


Corpi rappresentati in un vortice distruttivo, catturati in una bolla al di là del tempo, spinti al limite, manifesto di questo abbiamo tutti i protagonisti di “Requiem for a dream”. Una bolla che è anche un bulbo oculare da un lato atterrito e dilatato e dell’altro invece onnisciente e giudicante, uno sguardo dall’alto che sfinisce e svilisce come un dio passivo, inerte all’intemperie degli esseri umani, vale anche e soprattutto per le vessazioni “metaforiche” vissute da madre/natura Jennifer Lawerence.


Al declino fisico si collega di pari passo un percorso di turbamento morale, anche il Noah di Russel Crowe, per esempio, chiuso anche lui in una grande balena di legno, l’arca, sfida il buio catastrofico di un atroce dubbio di resa o di follia che anticipa il bagliore di una speranza di salvezza, praticamente finali che si ripetono: cigno nero su cigno bianco, l’ultimo combattimento, l’apocalisse, il diluvio universale e una crisi respiratoria. Un cinema di personaggi mutanti, basti pensare al Hugh Jackman mutaforma tra le epoche e le nuove dimensioni di altri mondi nel dispersivo ma emblematico “The Fountain – L’albero della vita”.



Si richiede pietà per la balena bianca di Melville, gigantesco inconsapevole cetaceo rappresentante l’utopia e l’ossessione, eppure gli occhi iniettati di sangue si gonfiano ancora di meraviglia di fronte a quella fagocitante illusione di possibile felicità. Il mostro del mare come la balena biblica è contenitore dei peccati ma è anche luogo di perdizione e infine di redenzione. Giona vive dentro la balena e prega per la sua anima, Charlie sopravvive dentro quel corpo enorme e quella casa buia scrutando da uno schermo nero gli spazi bianchi di un quaderno riempito da verità scomposte.
“Che si fottano le tesine, scrivete qualcosa di onesto”.
Aronofsky è autore di un filone ben specifico: il monster movie. Il mostro però è un essere umano spesso interpretato da una star, di questi la balena di Brendan Fraser è il terzo risultato di performance, che si aggiunge ai precedenti “ Black Swan” e “The Wrestler”, con tutto il macinato corollario riabilitativo che sta dietro alla reale vita dell’attore, un ritratto con risvolti alla Dorian Gray di un essere che dal baratro spicca il volo verso la luce e una dissolvenza in nero.
Categorie