L’ENVOL – Le vele scarlatte di Pietro Marcello
Dopo “Martin Eden” Pietro Marcello adatta nuovamente un’opera letteraria in chiave moderna e novecentesca, questa volta è il turno della novella russa Алые паруса, appunto “Vele scarlatte”, di Aleksandr Grin. La storia è quella di Raphael, un reduce di guerra che torna al paese e si ritrova vedovo, ospitato nella casa di una signora e con una figlia in fasce. Grazie ad un grande talento da artigiano, soprattutto nel trattare il legno, potrà affrontare la sfida di crescere la piccola Juliette.

Lo stile cinematografico è il solito al quale ci ha abituato Marcello: immagini dai colori pastosi, pellicola e parti d’archivio che si mescolano in un intruglio di mondo contadino e regno fatato. Il carattere magico dell’opera è dato dall’attenzione alla componente femminile, specialmente al personaggio principale Juliette e alla sua passione per la musica, gli intermezzi canori sono tutti diegetici e raffinatamente naturali. Natura che assume una valenza di attrazione sognante e fuori dalla normalità peaesana, accentuata dagli incontri nella foresta, dove spicca la vecchia e stralunata strega che profetizzerà l’arrivo delle vele scarlatte.

La nave della produzione avventurosa si mostra all’interno del film nelle vesti di una barchetta di legno che scorre lungo il fiume. Essa è addobbata da palloncini rossi al posto delle vele ed è pronta a prendere il volo con il primo soffio di vento, è la grazia di un cinema in divenire che speriamo non non si areni sul troppo conosciuto. Le vele scarlatte possono sembrare un orpello ma invece dispiegano una raccolta di rapporti familiari che mettono in luce l’anima gentile di una favola di contrasti.

Come nelle sue opere precedenti i volti trascinano la storia, anche grazie ai visi secondari, come ben riusciva a fare un particolare cinema italiano del passato. Raphael invece col suo muso duro e le mani callose, capaci però di intagliare giocattoli e suonare la fisarmonica, è un omone dall’apparenza burbera ma anche un padre amorevole, ci ricorda fisiognomicamente, con quel viso schiacciato, il vecchio ormeggiatore dell’Atalante di Vigo (nella storia originale di Grin infatti il padre è un marinaio). Entrambi possiedono un passato ermetico, avvolto da una coltre di misteriosa e malinconica ambiguità morale, dove però la pelle vissuta e la grossa stazza celano negli occhi scavati una contrastante tenerezza.


Una determinata sequenza folgora per bellezza estetica e poetico realismo: – Inquadratura dal basso su un corpo che si staglia perentoreo, come se fosse dipinto sul fondale di un celeste cielo in chiaroscuro. Ricoperto da un’aura mitica fuori dal tempo, con uno sguardo immobile verso il fiume, scruta, tremendo e passivo, l’abisso. L’azione è abortita e si riversa su quella figura ormai chimerica un’onta indelebile, un marchio terribile di rinnegamento nato dall’orgoglio e dalle diaboliche maldicenze.


Juliette è la sognatrice dal carattere forte che si innamora di un aviatore venuto dal cielo, come il pilota ne “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry, comparsata di un Louis Garrel che avremmo voluto più presente e approfondito. Curiosa del mondo e con un forte spirito d’iniziativa, caso strano anche la sposa dell’Atalante si chiamava Juliette, è decisa a far suo ciò che desidera e a difendere la propria integrità affettiva dagli abusi e dalle calunnie. Juliette è la linfa vitale della pellicola, soprattutto per il padre, che intento a ricercare il ricordo della moglie scomparsa, rielabora la perdita attraverso la figlia, suo simulacro indipendente; infatti è come se rivivessero entrambe nei bozzetti o nei dettagli intagliati di una polena appena commissionata. Possiamo solo immaginarlo quel volto di donna, appartenente al limbo platonico delle idee. Passato e presente prendono forma insieme, sta qui la misura dell’arte che riposa nella memoria, e la rileviamo nella lieve carezza di un povero artigiano.


Il film possiede un’aria bucolica di marca francese ma non affonda tutta la potenziale forza evocativa e si adagia sulle spalle di un’estetica che rischia di diventare un po’ troppo maniera, anche se, al giorno d’oggi, non sono da disdegnare le buone maniere.
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