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Fobos: figlio della guerra e dell’amore 

Sono lontani i giorni in cui a farmi paura erano i mostri sotto al letto. Le palpitazioni, le mani che iniziavano a sudare, le palpebre che tremavano e infine un urlo liberatorio: “mamma!”. Quando hai sei anni i tuoi problemi li risolve qualcun altro e i fantasmi si dissolvono in un abbraccio. 

Ricordo di aver avuto paura del buio, non riuscivo nemmeno a chiudere gli occhi. Tenevo l’abat-jour accesa per tutta la notte e maledivo il momento in cui dovevo alzarmi per fare pipì. Per arrivare in bagno accendevo la luce del corridoio e lasciavo la porta aperta: dovevo vedere. 

Deve sicuramente essere successo qualcosa durante la mia crescita. Oggi a farmi paura è la luce e la sua capacità di restituirmi la realtà priva di ombre. Nessun chiaroscuro. Nessun inganno. Lennon l’aveva definita una forza motrice potente tanto quanto l’amore ma, inevitabilmente, temere qualcosa ci induce a ritrarci. 

Oggi ho l’età per definirmi adulta (così dicono) e riesco a scorgere nell’inquietudine i miei stessi margini. Da bambina il mio tempo si espandeva e si restringeva in proporzione agli abbracci e al calore che ricevevo; alla fine del mio braccio trovavo, oltre alla mia mano, le dita affusolate di chi aveva il compito di cullare la mia infanzia. Oggi i miei confini di donna adulta sono ben delineati, e i miei intervalli danzano su un ritmo completamente diverso che fonda le sue basi sull’audacia. È questo il metro che utilizzo per misurare me stessa e le mie paure. Crescere non vuol dire dimenticare i propri demoni ma trovare per loro un posto nuovo. Io ho trascinato i miei dietro alla porta della camera da letto. Lo spazio che avanza tra l’armadio ed il muro è stato occupato dai vestiti che uso durante il giorno e sopra al mio disordine ho accatastato, con cura e precisione, panico, batticuore e apprensione. Tengo i miei mostri sotto controllo, a portata di occhi. Di tanto in tanto chiedo loro come stanno, gli offro da bere: li ubriaco. Stordisco la loro potenza con il potere della razionalità, quando quest’ultima mi assiste. A tratti nutro il loro ego consentendogli di alzare il volume della voce, ma ho imparato che possiamo convivere. Io e i miei mostri possiamo condividere il letto e le lenzuola, possiamo fare colazione insieme e mi hanno insegnato che il caffè è più buono amaro. 

Io e loro. Loro e io. Io. 

Nient’altro che -me stessa- alla fine di una lunga giornata, e allora la luce dell’abat-jour vale la pena tenerla accesa per potersi guardare. I fantasmi che temiamo ci somigliano così tanto che, senza rendercene conto, si sono fusi al nostro sangue e tengono unite le nostre vertebre. 

Scappiamo dunque, da loro e da noi stessi, e urliamo se lo riteniamo necessario ma alla fine di quella corsa ricordiamoci di fermarci e ascoltare quei fantasmi. Alla fine della corsa ricordiamo di ascoltarci. 

LA SCONOSCIUTA

Foto di Mattia Urlotti @Poegrafia.it

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