NOPE – Jordan Peele
Dalle stalle hanno origine le ombre e dalle profondità di una camera oscura ha origine la cronofotografia: le prime immagini del cavallo in movimento effettuate da Muybridge, fotografo precursore della biomeccanica e del cinema. A fine 800 nasce il cinema e in America siamo in pieno periodo Western. Ma il fantino di queste foto? Il fantino era un nero che sarebbe diventato di lì a poco il più grande ammaestratore di cavalli per l’industria cinematografica, una professione tramandata di generazione in generazione dalla famiglia Haywood fino a OJ e Em.

Tra le stelle del prestige-horror Jordan Peele indirizza il suo cinema nel gioco sofisticato della critica sociale (questione afroamericana) e del cinema di genere. Parallelamente a questa scelta politica e tematica ha ricorso sempre e consapevolmente ad una precisa analisi teorica dei suoi film come vettori interni dell’esperienza spettatoriale. Riassumendolo in un unico elemento indaga le ombre, prime forme di cinema primitivo tra l’altro. In Nope il metadiscorso si amplia sull’intrattenimento e la sua industria e le esplora da un ulteriore punto di vista rispetto al mondo sommerso di Get Out e alla danza dei doppi di Us, in funzione sempre dello sguardo. Schermi dentro l’inquadratura e addirittura inquadrature dentro alle inquadrature lasciano spazio ai campi lunghi e al vorticare vertiginoso di una minaccia da immortalare, una montagna russa spettrale nel cielo. L’incubo delle ombre nere ruota e gira come in una maestosa giostra insieme alle ombre rosse del western e a quelle bluastre della fantascienza, in forma e formato (Imax) da blockbuster e seguendo le orme del capostipite “monstre” spielberghiano (Jaws – Incontri ravvicinati del terzo Tipo – La guerra dei mondi). In Nope l’ombra è un gigantesco occhio, celato dalla foschia delle nuvole, un occhio affamato. L’ignoto terribile che non si può fare a meno di guardare. L’ombra come e più di prima è per Peele origine e teoria degli sguardi e delle prospettive: un santuario per gli adepti alla nuova religione delle immagini. Partendo dalla preistoria (1998) del millennio in cui il primate si ribella allo “show” in diretta e Gordy la scimmia ricorda a tutti gli effetti della bestialità dell’uomo e del suo sguardo. Ad inizio film rimane al centro del set una scarpetta sospesa in verticale come (il famoso) monolite (2001) che ci ricorda da dove veniamo.

A destare da un sonno materico il velo di un miracolo cattivo, alias in negativo, è un mostro invisibile. L’alieno a forma di cappello da Cowboy svela il meccanismo ammaestrato dell’ennesima attrazione da parco divertimenti, indice dell’intrattenimento tout court talmente immersivo da rimanerne inghiottiti. Un simbolo della mitologia cinematografica americana per eccellenza nella sua inesauribile e fascinosa decadenza, non è un caso che i cavalli del ranch Haywood diano il titolo ai capitoli del film, in quanto figure fantasmagoriche e traghettatori di nuove dimensioni; Lucky infatti è proprio un cavallo fortunato.

In/Stall(a)zione (in questa ultima sezione gli spoiler sono consistenti): grazie all’installazione di telecamere a circuito chiuso si anima l’azione per la ripresa impossibile di quell’ignoto essere, naturale evoluzione di quella violenza animalesca dello sguardo che si sublima in forme sempre più magnetiche e attraenti. E quando non saranno sufficienti si tornerà sempre all’origine, alla luce della resistenza al digitale, contro la dipendenza energetica, ovvero all’analogico: l’intramontabile baluardo. Muta forma l’animale che dal cielo cade come un angelo di Evangelion, spira e fluttua in una varietà geometrica dal linguaggio inaccessibile, vortica come un baraccone, ribadendo quell’idea originaria di attrazione, calamita e calamità degli sguardi che non possono fare a meno di guardare. NOPE è il rifiuto di quel gesto, è resistere al vortice di quello sguardo.

Il film svaga nella deriva pop che accumula cimeli e piste interpretative ed è scomposto e scomponibile in frame separati come nella cronofotografia: il mostro infatti viene catturato in un’istantanea capace di segnare la svolta per i nostri eroi, che per una buona volta non sono intenti a salvare il mondo, piuttosto pensano a se stessi e al loro riscatto con una storia/immagine da Oprah. Una serie di foto come erano del resto i primi prototipi del cinema delle origini, una serie di scatti impressionati in bianco e nero di un cavallo che corre. La focale fissa sulla fotografia era già presente nel primo film Get Out dove il protagonista, sempre interpretato da Daniel Kaluuya, era infatti un fotografo al quale un ricco bianco cieco voleva rubare gli occhi, e anche lì il “salvataggio”finale avveniva per mezzo di un flash sparato negli occhi del “predatore”. Osserva dunque, puoi concentrarti sul fantino, sul cavallo o sul movimento nello spazio, ci puoi vedere quello che ci vuoi vedere, ma a guardare troppo c’è il rischio di essere divorati.
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