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Piccolo Corpo – Laura Samani [futuro prossimo]

“Siate egoisti e prendete dal film quello che serve, siate generosi e parlatene con gli altri”

Queste le parole che la regista ha usato per promuovere questo piccolo grande film durante la presentazione video al Cineclub Nickelodeon di Genova.

La nuova produzione Nefertiti, capitanata da Alberto Fasulo, è l’esordio al lungometraggio di Laura Samani dopo il cortometraggio “La santa che dorme”.

Un percorso che continua con “Piccolo corpo”, un film dal respiro universale che nasce nel passato, siamo probabilmente a inizio 900, ma che richiama un tema assoluto, la femminilità nelle sue angolature più profonde, proiettandosi in un futuro prossimo, non solo come vicinanza temporale di eterna attualità ma di una prossimità emotiva, verso la persona, sia essa la protagonista o banalmente lo spettatore. 

All’eroina viaggiatrice Agata, la giovane donna, l’esordiente Cecilia Cescutti, si affianca Lince, Ondina Quadri, fanciullo bandito, che più che un personaggio è uno sguardo, tutt’altro che neutro. L’errare delle due anime verso l’ancestrale santuario si sposa con la loro crisi degli affetti familiari, entrambe fuggiasche e alla ricerca di loro stesse. Lo spegnimento del lume in miniera e l’assenza di aria nelle grotte maledette, provocano un lento scivolamento nel buio, verso un destino di morte, uno svenimento affannoso che inesorabile rigetta Lince ed Agata nella gola di uno schermo nero. Uno spiraglio di luce è la coordinata a tentoni verso la trascendenza di consuetudini e giudizi. Gli incontri con la saggezza della terra contadina mostrano una pietas contaminata dall’occorrenza.

Agata trascina una bara di legno che non nasconde una mitraglia, come un django o un sartana, ma il suo tesoro più grande: quel poco che c’è insieme al dolore. Non le possono essere tolti. Per lei l’unica meta possibile è la credenza di questa speranza di dare un soffio di vita a quel piccolo corpo che è nato morto.

La natura è una giustizia spietata: come in alchimia e per i riti di negromanzia “niente è per niente”, il miracolo cammina di pari passo al sacrificio. Il tempo di un respiro al prezzo di un esilio in apnea, non ci sarà la consolazione di altre vite (in)desiderate, non ci si passerà sopra, ma si cercherà nelle profondità dell’abisso. Nel buio delle acque ghiacciate del nord risplenderà quel corpo che tornerà insieme alla madre. Agata dà vita ad un’ostinata fuga con la scelta coraggiosa di vincere la lotta interiore che la perseguita, si autodetermina invece che subire le parole degli altri, persiste e trova la via. Rema da sola quella barca che sfiora sottile il letto del mare. E quando le forze del corpo sembrano abbandonarla in quello che può sembrare un gesto estremo, c’è un dono totale, contro il buonsenso del sentito dire: non è un abbandono o una resa e nemmeno una chiusura tombale (alla quale ordinariamente bisognerebbe credere) ma piuttosto un’apertura ignota, una silenziosa e autentica liberazione.

E nell’abbraccio di uno sguardo le daranno un nome inaspettato, un nome senza confini

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