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Re Granchio – il furore del fuoco in un bicchiere di vino

Un cinema errante, un cinema vero e paradossalmente in errore, perché eccentrico. Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis ci accolgono in una taverna ad ascoltare la storia da un gotto di vino, che un gruppo di anziani cacciatori racconta come fosse una leggenda popolare. Partendo da una vicenda alquanto reale e plausibile “Re Granchio” si tramuta in una favola surreale. È composta da due atti: il primo immerso in un paesaggio contadino, bucolico e rupestre, mentre il secondo è una sorta di western marinaresco ai confini del mondo e della coscienza. È un’atipicità questo film, un deviato discorso di canzoni popolari e principi dispotici. È natura selvaggia e schegge di rivoluzione che non si allineano, però, ad una movimento massivo, ma rimangono funeree nel loro nascere. Risalta la grettezza umana nella cornice di un simposio di colori naturali, dai rivoli e dai trogoli delle campagne tuscolane fino alle coste deserte e ai monti affilati delle Ande, dove l’anima dei “trovatores” è corrotta come l’acqua salmastra della foce di un subdolo rio. Invece il vino, rosso sangue del santo bevitore e del prete, o bianco per i soldati e i marinai, accende senza placare la sete delle pulsioni, che facilmente vanno fuori controllo.

Luciano un anarchico barbuto e sbandato del paese, ma figlio del dottore quindi col culo parato, si innamora, tra un’ubriacatura e uno sberleffo ai militi del principe, della figlia del servile contadino Severino: Emma, una madonnina floreale di pura solarità. In un’atmosfera rurale di genetica olmiana, pensando a “Albero degli zoccoli” come espressione più limpida, Luciano si specchia e si crogiola esistenzialmente nelle pozze e nei fiumiciattoli naturali dell’amena campagna del centro italia.

I personaggi secondari sono attori non professionisti che nella Tuscia ottocentesca miscelano le cadenze umbre, toscane e romanesche in un moto linguistico incantatorio. Realismo magico ma anche genere degenere. L’anti-eroe Luciano è in contrasto continuo con gli occhi malevoli del paese, solo Emma riesce a smussare gli spigoli del suo sbrigliato e cinico carattere, grazie alla sua genuina semplicità. Nel fondo del bicchiere, svuotato, del suo spirito, perennemente ebbro, arde anche un fuoco d’amore sincero e di ribellione. Un sentimento che sprofonda nel tragico e mitologico esilio – in culo al mondo – proprio nella terra del fuoco.

“Il figlio del dottore è mezzo matto. Col fuoco e col furore giustizia ha fatto”

Secondo atto, anche il racconto salpa verso fantasticherie e lidi esotici, e si fa decisamente più sospeso e surreale, dal vago ricordo herzogiano (“Aguirre” e “Fitzcarraldo”). Ci si abbandona inoltre ad una vicenda pienamente leoniana: la febbrile ricerca dorata de “Il buono, il brutto e il cattivo” è il sedimento principale dell’itinerario che conduce alla resa finale della montagna. Luciano diviene lo spietato senza nome, né buono e né cattivo, il sibillino prigioniero di una carovana di reietti.

Il granchio è l’unica bussola del Tesoro sepolto, la mappa fondata su credenze arcane di istinti animali, il ritorno impossibile del prezioso, al proprio inizio, all’essere felici e in pace in tutt’uno con il mondo. La natura è il luogo dove perdersi dolcemente nel disfacimento esistenziale, ma soprattutto è dove l’uomo viene per metà annichilito e per metà traghettato nel mi(s)tico. Nel lago onirico la mente svanisce, la casa è una meta irraggiungibile, nella realtà allucinata risorge il ricordo spettrale di una promessa, sussurrata all’orecchio, che perdura. Siamo in un altro mondo: è il regno dell’inconoscibile, un regno di fantasmi e di segrete speranze.

Re Granchio é il bisogno che quella porta di passaggio (dei generi, del reale, delle immagini) non rimanga chiusa ad un uso elitario e limitativo ma venga spalancata, per far passare il gregge , prima di bruciare furenti e tornare niente.

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