#1. Settembre.
1/9/2018
Il telefono squillava con insistenza, la pioggia cadeva sulle strade “questa è la classica bomba d’acqua, tipica dei mesi autunnali” disse lei.
Eccola qui N. distesa sul mio letto, nella mia stanza, in casa mia, impegnata a respirare la mia stessa aria. “Eccola qui che inquina i miei cazzo di spazi – pensai -sono tre anni che stiamo insieme, all’inizio ovviamente era tutto bello, ora è tutto uguale, immobile. Se non fosse che continuiamo a scopare probabilmente mi sarei fatto lasciare”
“Ah giusto, sei meteorologa lo dimentico sempre” risposi cercando un flebile scontro, un pretesto per deviare dal discorso principale. Il telefono continuava a squillare, lei lo prese dal comodino, scavalcandomi “quanto cazzo odio quando mi scavalca, toccare le mie cose. Questo è tutto mio, pure l’aria che respiro in questa casa è mia. Cristo non vuole capirlo proprio”.
N. lasciò il mio telefono dopo averlo inquinato a dovere:
“Dovresti risponderle, hai aspettato trent’anni questo momento ed ora ti rifiuti di viverlo?” disse con il suo sadico sarcasmo “Guarda che non ho vissuto trent’anni sperando di vederlo agonizzante e potergli dire ciò che penso, al massimo dieci” dissi. Lei socchiuse gli occhi senza rispondermi, o forse quella era la sua risposta. Comunque sia quel pezzo di conversazione era finito e piano piano sarebbe diventato un ricordo, come le altre mille parole pronunciate durante quei tre, ormai morenti, anni.
Mi alzai ed andai ad accendere la macchinetta del caffè, non riesco mai a cagare a dovere senza un caffè lungo macchiato freddo. Ho deciso di richiamare mia madre solo quando sarò seduto sul cesso, per godermi al meglio l’infinita lagna di chi richiede attenzioni.
Intanto N. tuona dal mio letto “Ahhhh aspetta, ci sono arrivata, era così semplice! Hai aspettato per tutti questi anni, questo momento per il sadico gusto dell’ultima parola,p dico bene?”.
Il sangue mi ribolliva nel cervello, se avessi bevuto il caffè avrei sboccato l’anima per tutto il nervoso. Aveva colpito perfettamente il nervo scoperto, ecco perché continuavo a volerle un flebile bene, nonostante tutto.
Mi arresi all’evidenza: ha ragione.
“Quanto cazzo mi costa ammetterlo” sono quasi tentato di dirle e forse lo dico ma a bassa voce, giusto per liberarmene.
“Vuoi sempre l’ultima parola – continua N. – sai che soddisfazione davanti alla morte? Il tuo Natale, vai lì, gli sbatti in faccia tutte le tue ferite e quello, impossibilitato a respirare e troppo impegnato a morire, non può nemmeno risponderti. Insomma la tua conversazione ideale. Ti ci vedo bene”
N. continua a straparlare, l’unico modo per farla star zitta è fare l’offeso, non ho altre vie di fuga. Mi misi in silenzio, lei si avvicinò ed io le toccai il costato, come se le sue costole fossero tasti di pianoforte, cercavo la melodia giusta per farla tacere e la trovai subito.
“Pronto? È tutto il pomeriggio che ti chiamo, sei ancora a casa? Qui la situazione precipita, tua sorella è già qui da giorni, vieni o rischi di non salutarlo”
“Ciao, si guarda sono pieno di lavoro parto domani mattina con il primo treno”
“Parti però, guarda che rischi di pentirtene”
“Assolutamente no, non mi perdo uno spettacolo simile – non tardò ad arrivare una gomitata di N. accompagnata da sguardo cupo – ti serve qualcosa mamma? – provai viscidamente a recuperare in calcio d’angolo – qualsiasi cosa eh, non esitare”
Buttò giù senza degnarmi di una risposta.
“Ti accompagno in stazione dai” mi dice N.
“Domani però, questa sera sono stanco”
“Forse questa volta avere l’ultima parola ti fa paura no? Non rispondermi, pensaci” prese le sue cose ed andò via.
2/9/2019
Ormai era passato un anno dal giorno in cui tornai a casa di mia madre. Trecentosessantacinque giorni prima, avevo varcato quella porta in tarda serata, dopo un lungo viaggio. N. non mi aveva accompagnato in stazione, ricordo che fu una giornata di lunghi silenzi e quando arrivai a casa erano tutti vestiti di tutto punto. Completi stirati ed indossati, solitamente i primi a vestirsi prima di un funerale sono i morti e non i vivi, ma in casa mia qualsiasi schema era destinato al rovesciamento. Da sempre.
Ricordo che mia madre mi offrì un caffè; ricordo i parenti tutti stipati in cucina “prove generali di dolore” pensai subito. Pur di non entrare in quella stanza decisi di intrattenere conversazioni con parenti di cui non mi era mai fregato un cazzo di nulla; temporeggiavo il più possibile tra birre, parole e bestemmie – bestemmiavo solo io, essendo loro tutti molto cattolici – ad un certo punto la testa incominciò a girarmi.
Nella mia famiglia quando qualcuno beve non si dice mai “è ubriaco” ma ci si limita ad un più cattolico “ha esagerato”. In poco tempo tutti i volti intorno a me mi guardavano con sguardo da maestrini, mi sembravano stessero tutti bisbigliando “ha esagerato”, e quindi decisi di rispondere – gridare – “ no sono proprio sbronzo cristo dio, uno esagera con le cazzate, con i pensieri e con le paure. Io no, sono solo sbronzo”.
Buio in sala, spettacolo gentilmente concesso anche in quell’occasione. Ancora aspetto i loro ringraziamenti. Mi svegliai il giorno dopo – quindi trecentosessantaquattro giorni fa oggi – sul divano, accesi il telefono con estrema difficoltà, ricordo una forte nausea e nemmeno un sms di N., ancora oggi mi chiedo se ci sia una correlazione tra nausea e scomparsa di N.
Presi un caffè in cucina, mia madre mi accarezzò il viso, “vai nella stanza, oggi potrebbe essere l’ultimo giorno, questa mattina stava meglio”
“Il canto del cigno dici?” avrei fatto qualsiasi battuta per vanificare quella dolce carezza,ero a corto di disprezzo.
“Vai o te ne pentirai”
Ricordo che entrai nella stanza, puzzava tutto di merda e chiuso, mi avvicinai al letto. Vidi uno spettro steso sul letto, coperto solo con un lenzuolo trasparente, attraverso il quale si vedeva il costato “chissà se con un pugno riuscirei a sfondarglielo” pensai forte mentre lo spettro mi guardava ansimando.
Rimasi in silenzio, chiusi la porta alle mie spalle e lo guardai lentamente morire. Mentre moriva pensavo ad N., alle sue costole, ai miei parenti e alla loro morale cattolica ed infine pensavo allo spettro che avevo sotto i miei occhi. “Morire sembra essere faticoso, spero non stia prendendo forze per dirmi quelle cose squallide come ‘scusami’ o altre cazzate che servono solo a chi ha fatto del male e poi cerca il perdono per egoismo e basta”.
Per fortuna non disse nulla. Morì dopo poche ore ed io uscì dalla stanza frastornato. Le mie paure non erano ancora morte, N. non mi aveva ancora cercato ed io sarei rimasto lì, in quella casa, in quella stanza, incastrato nell’ultima parola che non ho mai avuto il coraggio di dire al fantasma:
Scompari,
ora.
Un perpetuo Settembre di punti fermi.
-A.
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