Roubaix, une lumière – Arnaud Desplechin
Il film parte con una macchina incendiata alla vigilia di natale, un barlume scomposto tra le luminarie artificiali, e nello sguardo vigile allo specchietto retrovisore c’è la routine delle volanti notturne. Il suono delle sirene sono un canto di natale velato dal lavoro documentaristico degli interventi sulla soglia delle case popolari, una normalità che non si ferma neanche nei giorni di festa.
Il film ed il protagonista, il commissario Daoud, non hanno uno sguardo accusatorio riguardo a quello che sembra essere l’oggetto del film: il degrado sociale di Roubaix, città natale del regista, ma bensì hanno uno sguardo interno e il più possibile distaccato di quella stessa società periferica e multirazziale. Questa narrazione sociale multi etnica è una delle tipicità della cinematografia francese recente, si pensi all’exploit della palma d’oro del 1995 “La haine” di Mathieu Kassovitz o all’ancor più contemporaneo Les Misérables di Lady Ly. Le seconde generazioni di immigrati hanno già radici profonde, e nel film di Desplechin questo non è un gancio espressivo sbandierato ma semplicemente una giacenza antropologica. Quello che sorprende di questo neo-polar è l’impianto realistico della centrale di polizia e della sua quotidianità, il film è infatti ispirato al documentario “Roubaix, commissariat central” . Tra piccoli e grandi crimini, evasioni familiari e cronaca nera, il detective scavato, Roschdy Zem con l’aplomb composto di una delle più riuscite caratterizzazioni della storia del poliziesco recente, intuisce negli interrogatori/confessioni il giusto spazio empatico con il quale fare luce sui fatti, a differenza del giovane detective bressoniano, un acerbo ricco di buone intenzioni ma ancora s-oggetto estraneo di quel mondo.

Il commissario Yacoub Daoud è il mediatore dal passato mai pienamente disvelato, la famiglia tornata al paese e lo sprezzante nipote incarcerato sono gli elementi di questo eco nascosto. Comunque è così radicato da aver accettato per davvero il luogo a cui appartiene, non una scommessa vinta ma una scelta di appartenenza sociale. La sua passione per i cavalli non è l’adrenalinica scommessa calcolata, fatta di numeri e statistiche, ma piuttosto l’incontro ed il contatto con una creatura, scelta e curata, un gioco di cuore e non un’avida puntata.
Ma ancor più sorprendente è la ridisposizione dell’indagine principale in uno scavo psicologico nelle intense prove delle due sospettate, Lèa Seyodoux e Sara Forestier nella seconda parte del film, che svela la tenerezza agghiacciante di una rimbalzante e disallineata ammissione di colpa. La verità verrà alla luce (?) attraverso il ri-racconto, e il ri-azionamento fisico ed emotivo, un’azione letteralmente catartica sul filo del teatro tragico. I casi si accumulano, si intrecciano le prassi ma non tutti i nodi vengono al pettine, il giudizio morale vacilla di fronte alla miseria, e verso la fine sembra di essere dalle parti del finale amaro di “Un maledetto imbroglio”, altro capolavoro diretto da un grande regista profondamente e ostinatamente legato al senso morale, Pietro Germi, che come Arnaud Desplechin connotava i suoi personaggi di una profonda umanità. Non si respira un’aria nuova di speranza, si rimane lì consapevoli di essere parte integrante di un complesso sistema decadente.
Daoud: “Non si fa niente, a volte non sappiamo perché ma tutto si illumina”
“Nel neo-noir i punti cardinali sono deboli sia quando sono concreti, sia quando sono indeterminati. Sono limiti sfumati”
Brivido caldo – una storia contemporanea del neo-noir,
Pier Maria Bocchi, 2019
Roubaix è sinonimo di quartiere, città e paese, posta nell’estremo nord- occidentale della Francia è un luogo transitorio di culture a due passi dal Belgio, un confine sfumato che non appartiene a nessuno. Più che la rappresentazione della banlieue nel film di Desplechin si ha la disamina di una periferia esistenziale al quale appartenere, e in questa geografica instabilità il commissario Yacoub Daoud ha trovato il suo posto.
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