IL COMMISSARIO PEPE, OVVERO IL SESSO E L’IPOCRISIA CHE MOVONO IL SOLE E L’ALTRE STELLE
“La nostra è una città tranquilla, dedita al lavoro e alla famiglia. Venticinque fabbriche, tra grandi e piccole. Ogni tanto c’è qualche sciopero, qualche comizio, ma senza compromettere l’ordine pubblico: discorsi infuocati, vibrate proteste, qualche applauso e tutto resta come prima. I padroni restano i padroni e gli operai restano operai. La nostra è una città cattolica. 34 chiese, sempre tra grandi e piccole: la nostra è una città che si fa il segno della croce.”
La città è in un’imprecisata zona del Veneto, una piccola realtà dove tutti i cittadini si incontrano la domenica in chiesa; chi parla invece è Antonio Pepe (Ugo Tognazzi), commissario nella suddetta città: è sostanzialmente il vettore della trama, commentatore cinico dell’ambiente circostante, un ambiente che, sebbene lo disgusti, non è in grado di modificare.
Personaggio schivo e dalla vita piuttosto ritirata, con l’unica concessione di una storia clandestina con una donna divorziata, si rende conto di una piaga affligge tutta la comunità e con essa il resto del paese, e cioè quella della sessualità vissuta nell’ipocrisia di un’Italia democristiana che non rifugge il peccato ma non è in grado di compierlo senza colpa o vergogna.
Il sesso e la socialità, decodificate attraverso la morale cattolica, creano connivenze tra situazioni al limite della legalità e la legalità stessa ed è la pulsione sessuale che viene indicata dal commissario Pepe come elemento totalizzante per l’essere umano, pulsione sessuale non a caso, perché si tratta di una sessualità vissuta nelle sue forme più grottesche.
Quinto lungometraggio di Ettore Scola e una delle prime opere più caratterizzate, Il commissario Pepe, è un film del 1969, perfettamente calato nei suoi tempi che si serve di personaggi appena abbozzati e tutti inseriti in una trama in grado di raccontare non solo una realtà sociale ma la realtà storica attraverso la quale, meglio si comprendono i meccanismi che portano una divisione sempre più netta tra classi e generazioni sulla coda del boom economico, ormai in gran parte disilluse e prive di riferimenti.
A fare da perfetto sfondo ci sono le musiche di Armando Trovajoli, che ripropongono fedelmente le atmosfere del film creando una cornice armonica, tanto da renderla una colonna sonora godibile di per sé.
Un altra cornice narrativa è composta dalle immagini sparse qua e là in tutta la pellicola, dove vediamo filmati della guerra in Vietnam, della primavera di Praga trasmesse dalla televisione del commissario, insieme a continui rimandi ai movimenti settantottini.
Il contesto storico è chiaro e funzionale, diventa invece molto articolato il contesto sociale composto da personaggi di ogni sorta, tra cui spicca il veterano in sedia a rotelle; Nicola Parisi (Giuseppe Maffioli), che trova nel farsi odiare, la sua ragione di vita e come lui, gli altri reietti della società, sono gli unici personaggi che accettano senza ipocrisia alcuna, il loro vizi e degenerazioni, in contrapposizione e in totale rottura col resto dei personaggi: una sfilata di archetipi cittadini quali la contessa che ospita orge, il preside di scuola pederesta, la figlia del prefetto che si prostituisce per noia e rivalsa; perfino la fiamma segreta del commissario Pepe posa per delle foto erotiche.

Un film tratto dal romanzo omonimo di Ugo Facca De Lagarda, perfettamente recitato da Tognazzi e comprimari, riporta le tematiche di Signore e signori di Pietro Germi, uscito tre anni prima.
Affronta di nuovo il tema dell’ipocrisia figlia della religione in un ambiente come quello fintamente progressista ma intimamente giudicante di una cittadina del nord Italia, cercando l’originalità nei toni più drammatici, meno usuali per la commedia italiana ed un montaggio sperimentale da poliziesco anni ’70, che fa coppia con alcune soluzioni narrative come la rappresentazione delle fantasie e pulsioni del protagonista, che nonostante non siano sempre ben riuscite, aggiungono al film un ulteriore sfumatura e al protagonista restituiscono la sua lotta interiore.
Uno dei tanti titoli italiani dimenticati, capaci di catturare con pochi tratti un’intera cultura, una grande cerchia di umanità a cui tutti, in misura diversa, apparteniamo e a cui torniamo sempre, prova ne è la pruderia, la violenza, la gelosia che il protagonista stesso prova, pulsioni comuni che creano in lui disagio e lo rendono incapace di giudicare il prossimo, perché esso stesso è un peccatore ed esso stesso consapevole dei propri limiti, questo, non senza lasciare uno spiraglio di speranza per il futuro: chiedendosi infatti, se questa città alla fine dei conti sia realmente corrotta, si risponde da solo dicendo:
“Lo saprà quello che verrà a sostituirmi, se sarà peggiore di me subirà quello che io non ho voluto subire, se sarà migliore di me farà quello che non ho avuto il coraggio di fare io. “
Forse è il momento di riscoprire un cinema che ha il merito di raccontare un paese che non è cambiato poi tanto e non è cambiato abbastanza, un cinema che se osservato attentamente, ti racconta come.
Michela Mucelli
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