Selfie: [In]coscienza del nulla.

Agostino Ferrente sceglie nuovamente Napoli – dopo Le cose belle 2013 – per il suo nuovo documentario: Selfie [2019]. Il regista pugliese sceglie un quartiere di Napoli ben preciso: il Rione Traiano, diventato tristemente famoso nel 2014 quando un carabiniere fuori servizio sparò al giovane Davide Bifolco, scambiandolo per un latitante in fuga. Sarà proprio la morte di Davide Bifolco a fare da sfondo ai racconti di Pietro ed Alessandro, due giovani adolescenti nati e cresciuti nel Rione Traiano. Ferrente affida ai due ragazzi una videocamera – ‘macchina da presa’ avrei scritto anni fa, oggi questi mezzi sono accessibili a tutti – chiedendo loro di riprendersi e raccontarsi in modalità selfie durante le proprie giornate. Alessandro e Pietro sono due adolescenti semplici, pieni di sfumature, immersi però in una società dicotomica ed educata alla catalogazione del prossimo basata su inutili stereotipi; i due cercano in qualche modo di scollarsi di dosso il cliché di ‘ragazzi violenti’ – spesso alimentato dai media – attraverso l’uso della propria immagine. Due James Stewart contemporanei – chissà cosa avrebbero da dire Hitchcock e Truffaut a proposito dei selfie – intenti a raccontare i propri spazi (dalle loro case ai locali del rione) ed a rendere pubblica una realtà alternativa a quella dipinta dai mass media dopo l’omicidio di Bifolco.
Primi piani ed occhi spenti, così si presentano Pietro ed Alessandro, corpi estranei al cinema italiano, due attori non professionisti come nella migliore delle tradizioni del cinema italiano – dal neorealismo al realismo magico. Due corpi pregni di significanti e significanti. Due corpi immersi in una città di mare – una città liquida – che divora e viene divorata dalla narrazione nazionale tossica e piena di luoghi comuni. Due corpi che non affondano:
« “Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita » [Gilles Deleuze, L’immagine-tempo].
Galleggiano, Alessandro e Pietro, raccontandosi in autonomia senza che a farlo siano terzi; come la maggior parte dei ragazzi della loro età masticano linguaggi ben diversi da i nostri, uno di questi è sicuramente Instagram. Un social network inizialmente sottovalutato che, nel corso degli ultimi anni, ha rivoluzionato lo storytelling. Moltissimi ragazzi e moltissime ragazze raccontano la propria vita attraverso trenta secondi di notorietà – un tempo erano 15 minuti – chiamati stories; contemporaneamente ricercano una propria verità nelle stories dei loro coetanei, spesso in modalità selfie. Possiamo considerare Selfie come una lunghissima stories da grande schermo. Instagram ha ufficialmente ucciso quella che Walter Benjamin era solito definire “Bewusstsein” [«Eine neue Region des Bewusstsein» ‘una nuova regione della coscienza’ Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica].
La tanto citata, nei vari testi di critici e teorici di cinema: coscienza del mezzo [con mezzo si intende ovviamente la macchina da presa], attualmente risulta essere un concetto superato.

Pietro sogna di fare il parrucchiere, Alessandro invece è un barista, in entrambi i ragazzi c’è una dolcezza infinita nelle parole e nelle loro azioni. I dialoghi trai i due protagonisti sono frammenti di sogni e debolezze mai affrontate, in loro nasce l’ingenua esigenza di raccontare la vicenda di Bifolco; “il nostro film” si ripetono i ragazzi senza tener conto del montaggio. Tutte queste parole si consumano in primi piani – talvolta primissimi piani escludendo quindi le spalle -; il rione Traiano viene invece affidato a campi larghi grazie a quelle che sembrerebbero videocamere a circuito chiuso. I corpi dei due ragazzi all’interno del rione vengono raccontati da queste videocamere a circuito chiuso che ricordano quasi le immagini di sparatorie urbane che vengono mostrate nei telegiornali. Provando ad immaginare Selfie come un testo scritto e le singole immagini come frasi – un romanzo visivo – possiamo dire che Alessandro e Pietro immersi in questi campi larghi, non sono più i soggetti di un periodo – inteso come frase – ma diventano ‘Segni’, basandomi sulla definizione che diede Lotman:
« Il segno è l’espressione materialmente realizzata della sostituzione di oggetti, fenomeni i concetti nel processo di scambio di informazioni nell’ambito di una comunità. La caratteristica principale del segno sta dunque nella sua capacità di svolgere una funzione di sostituzione » [Jurij M. Lotman Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica].
I due ragazzi sono i Segni che rimandano ad un immaginario da cronaca nera, attraverso l’inserimento di immagini a circuito chiuso lo spettatore viene catapultato all’interno di una narrazione da servizio televisivo che spesso ritroviamo nei pessimi talk show propagandistici.

Forse a loro insaputa, forse no, sta di fatto che gli sforzi immani di Pietro ed Alessandro, per emanciparsi dai luoghi comuni su Napoli – nello specifico sulla delinquenza – vengono vanificati con alcune semplicissime immagini. Ed eccola qui l’arma a doppio taglio della mancanza di coscienza: il montaggio.
Il montaggio è l’elemento principale della narrazione per immagini; dobbiamo provare ad immaginare il montaggio come una grande bocca in grado di masticare e riproporre immagini sotto forma di blob senza contorni. Alessandro e Pietro sono stati masticati e rigurgitati da meccanismi a loro incomprensibili; vittime di una narrazione che li vede solo come portatori di delinquenza e non permette loro il riscatto sociale; sguardi persi pronti a cadere nel vuoto, mangime essenziale per alimentare i cliché poiché ormai è risaputo: gli stereotipi conciliano il sonno, la verità invece no. Mi sarei aspettato un fotografia ben precisa, ovvero quella della mancanza dello Stato ed invece no, siamo ancora qui ad alimentare le guerre tra poveri che come unico scopo hanno quello di distogliere l’attenzione. L’unico regista italiano che ha fotografato la mancanza delle istituzioni è stato Pietro Marcello con Bella e perduta. Non possiamo pretendere di smontare gli stereotipi attraverso lo stesso linguaggio che ha permesso agli stessi stereotipi di radicarsi profondamente nel modo di pensare della nostra penisola. Il Novecento è stato il secolo della parola, il nostro è il secolo dell’immagine ed abbiamo una responsabilità morale. Dobbiamo ritrovare quella coscienza persa e adattarla a nuovi linguaggi. Selfie ha alla base una splendida idea peccato – un vero peccato – che il messaggio di fondo sia stato vanificato con poche immagini che si sarebbero potute evitare, salvando anche Pietro ed Alessandro, fiduciosi nonostante tutto.
Ps: Vi consiglio la lettura di ‘Giovanissimi’ di Alessio Forgione.
Daniele.
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