Lo sguardo di Pietro Marcello (2pt.) La bocca del lupo
-La bocca del lupo
Quando Amelio selezionò il film, ancora non eravamo sicuri su come si sarebbe chiamato […]. Infatti prima che la bocca fosse quella del lupo, il film aveva un altro titolo di lavorazione, Ad Genua. Non si prestava però a una lettura complessiva del film, che non parlava solo della città di Genova e della sua grande storia, ma anche di Enzo e Mary e della loro “piccola” storia. Tutte le alternative non sembravano soddisfare questa esigenza, fino a quando l’amico e professore Martino Marazzi non ci venne in soccorso, suggerendoci il titolo dell’unico romanzo ottocentesco scritto su Genova, La bocca del lupo, di Remigio Zena. Questo titolo riusciva a raccogliere i diversi momenti a cui il film alludeva. C’era la Genova sottoproletaria del racconto di Zena, che si ambienta proprio tra gli stessi carruggi del film; c’era il riferimento alla forma della città, che s’apre sul golfo a bocca di lupo; c’era il riferimento alla vita carceraria della vita di Enzo, perché a “bocca di lupo” sono fatte le finestre delle prigioni antiche; e poi c’era il “lupo”, il volto di Enzo, la sua forza e storia, con l’impronta favolistica della sua vicenda personale1.
Il film di Marcello con il libro di Remigio Zena ha in comune, oltre al luogo, un altro elemento narrativo: l’ostinata lotta di sopravvivenza, nonché il sogno d’evasione, che persone di bassa estrazione sociale vivono in un contesto di povertà e di emarginazione. Nel libro la Bricicca e Marianella sognano la vita borghese con un’angosciosa bramosia, invece nel film i nostri protagonisti sognano la tranquillità della campagna con lo scopo di vivere insieme dandosi forza e amore a vicenda. Docufiction, docu-poesia, documentario ibrido sono termini che non useremo, poiché danno solamente una vaga idea di un’opera ineffabile e indefinibile come La bocca del lupo. Poema-visivo forse è quello che esprime meglio ciò che può essere, ma essendo comunque di difficile catalogazione, non ci azzardiamo a inserirlo in una definizione, piuttosto consideriamo che la sua possibile collocazione rientri nell’eccezionalità, rara, di film che s’incontrano con la nostra città (Genova) in questa forma.
Ricordo i racconti di mio padre che per molti anni è stato marittimo e si imbarcava dal ponte dei Mille; per tutta la sua giovinezza Genova ha rappresentato la città ideale. […] Io ho conosciuto un’altra Genova silenziosa e unica nel suo essere diversa, una città del Nord che guarda a sud. Stretta tra il mare e le montagne, le campagne e i porti, la dismissione industriale e la modernità terziaria, Genova è una città di confine e di mare. La sua gente e la sua storia, le ombre dei luoghi scomparsi e gli echi delle memorie perdute sono i visibili resti di un’archeologia del passato e della memoria2.
È proprio da Quarto dei Mille che il film comincia, con in primo piano il mare visto da una caverna e sullo sfondo una grossa nave; la voce-over di Franco Leo miticizza il prologo e come un rapsodo antico narra una storia arcaica e senza tempo. Le parole, scritte da Marcello, assumono, unite alle immagini dei “nuovi abitanti delle caverne”, un’aura omerica e ancestrale che trasuda un onirismo poetico ma allo stesso tempo realistico:
«Omero, osserva Tatarkiewicz, mentre lodava “il cantore che celebra gli eventi del passato come se egli stesso vi avesse preso parte”,[…] contemporaneamente elogiava l’ispirazione e la libertà poetica: come a dire che la mimesi deve si aderire al reale, ma, nello stesso tempo, non può prescindere dalla libertà immaginativa del poeta3.
«Uomini che trasmigrano / non conosciamo la loro storia / sappiamo che hanno scelto… trovato questo luogo e non altri / per sentirsi al riparo, a ridosso di una strada, che diventa città». Un vagabondaggio, come quello di Enzo Motta, che poco dopo verrà ripreso mentre scende da un cargo e passeggia come un fantasma tra i container dei treni merci, proprio in quella zona industriale-portuale, ex impianto Ilva di Cornigliano, che è stata da sfondo a molte scene d’azione del poliziottesco genovese anni’70. Adesso è ormai un’area deserta e dismessa, nel film assume un’atmosfera quasi metafisica grazie anche all’alternanza con i preziosi filmati d’archivio che la riprendono nel passato, dai momenti prosperi alle demolizioni, ponendo allo spettatore una visione archeologica. E di questo bisogna rendere religiosamente grazie a Sara Fgaier, per la sua approfondita ricerca di materiale filmico di repertorio e per la sapiente commistione nel montaggio, tra la grande storia di una città e quella piccola di due esseri umani resistenti alle sofferenze della vita. «La scelta di una così ampia eterogeneità di documenti è stata determinata dall’intento di far emergere, attraverso la memoria visiva, la storia di una città in bilico fra tradizione e cambiamento, pronta a trasformarsi di nuovo, e dei suoi abitanti, nei loro più diversi comportamenti ed espressioni»4.
L’attenzione compositiva, da quadri pittorici, risalta principalmente nelle inquadrature fisse, un esempio è lo stacco tra i filmati color seppia e la ripresa statica, quasi fotografica, del cielo nuvoloso al tramonto sopra le ex industrie del ponente ligure, altrettanto plumbea e giallastra. Suggestive anche le scene nell’angiporto notturno, tra personale Amiu che pulisce la strada, transessuali e sbandati. Sebbene mai esplicitato si vive e si respira la stessa aria carica e pungente dalla quale Fabrizio De Andrè e Max Manfredi hanno tratto alcune loro canzoni, incrociamo gli sguardi di “chi vive in controluce e soffia sulla brace di una città”5, udiamo le voci e i mormorii intorno ai volti nel cuore del centro e “ciû s’addentran inta cittaë ciû euggi e vuxi ghe dan deré”6. Enzo vive e gira nei vicoli, si racconta schietto e senza scrupoli alla macchina da presa. L’incontro casuale con Enzo è stata la chiave di volta del film, osservando il suo volto il regista ha trovato quella storia, quel forte vissuto che tanto ricercava; è stato un lampo che nel tempo si è irradiato a dismisura dando forma a quell’ora scarsa di film:
Credo che nel cinema il volto sia tutto. Ad esempio, un volto come quello di Enzo racconta una storia anche se sta in silenzio. Una fisionomia così ti fa il film, e infatti Enzo è straordinario. I suoi silenzi sono altrettanto straordinari, anche se legati al fatto che è stato tanti anni in galera dove ha imparato a stare fermo, a controllare realmente il suo corpo7.
Già perché apprendiamo dal film che Enzo si è giocato buona parte della sua vita in carcere, luogo in cui conosce Mary, ci ha passato 27 anni in totale, di cui gli ultimi 14 tutti di fila, chiamati amaramente la “lunga stecca”. Non fosse stato per questo, con quel viso e quel portamento avrebbe potuto fare l’attore, e il film lo suggerisce e lo dichiara in diverse occasioni; « la sua faccia esprimeva il cinema che volevo fare. Ho sempre pensato che non si giudica un attore soltanto dalla bravura tecnica, bensì dalla storia che il suo volto racconta. Enzo non è un attore, ma avrebbe potuto esserlo, e lo è stato per questo film»8. Lui figlio di Pippo, un venditore dei vicoli, “accendini, fiammiferi, bombe a mano!”, ma anche di sigarette di contrabbando, ha sempre vissuto nella Genova meticcia, a contatto con la malavita. Enzo subì durante la sparatoria nel locale Zanzibar, messa in scena attraverso suggestioni di montaggio con in sottofondo la voce narrante del protagonista, quattro colpi di pistola nelle gambe e uno nella pancia. «Enzo mi ha mostrato subito i segni dei colpi ricevuti, le pallottole che riposano nelle sue gambe»9, nella sparatoria ferì i poliziotti conosciuti nella mala genovese come “Kociss” e “l’Indiano”, incominciando così il suo iter in gattabuia. Non possiamo non rintracciare nella fisionomia di Enzo un parallelo netto tra il suo volto e quello dei poliziotti e dei malavitosi (che erano i medesimi visi, gli stessi attori) del poliziottesco anni’70, come ci ricorda anche Buttafava, «i piccoli delinquenti e i piccoli poliziotti hanno le stesse facce»10; soltanto che mentre loro recitavano quelle situazioni, Enzo le ha vissute per davvero sulla propria pelle. E anche quando si lamenta al bar: « Sono inguaiato. Sono troppo giovane per avere la pensione e troppo vecchio per avere un lavoro. Dove vado? Che devo fare? Vado a fare le rapine? I sequestri? Sparo un’altra volta alla polizia? Sparo un’altra volta ai poliziotti così buttano le chiavi?». Quello sguardo truce, la mascella squadrata ed il baffo lo collegano fisiognomicamente a quel tipo di ruolo. Il discorso continua anche grazie ad altri espliciti riferimenti intradiegetici, quando Enzo afferma di aver posseduto solo due pistole: una tedesca cromata e «una 44 magnum come l’ispettore Callaghan», il poliziotto per eccellenza. E quando incarna letteralmente il ruolo del bandito fuorilegge, parlando aspramente dei poliziotti, con un sottofondo da film western, in cui dichiara di non aver mai avuto mandanti: «io sono libero, franco e indipendente. I poliziotti prendevano il pizzo nei locali, come la camorra… E questa è la legge? La legge me la faccio io». Enzo però non è solo durante la lavorazione, dopo diversi mesi di scetticismo si è convinta a partecipare al progetto anche Mary Monaco, un transessuale scacciato dalla propria famiglia borghese, ex tossico, compagna di Enzo. Prende forma nel racconto una storia d’amore che si instaura in una condizione comune di resistenza resiliente verso un passato pieno di ferite, «non si parla di vinti, ma di resistenti»11
Non un film a soggetto ma neanche cinema documentario come lo si intende abitualmente. Senza attori, ma con due personaggi veri e forti al suo centro, e alla base una storia d’amore come non se ne sanno più raccontare, un’amore vero tra due irregolari12.
il racconto avrà il proprio culmine nell’intervista-confessione finale, dove i personaggi si mettono a nudo con una delicatezza, un pudore e un’autenticità davvero straordinari. Una sequenza senza tagli restituita così com’è, nella sua imperfetta bellezza, nella sua potenza emozionale data dalla forza del reale; un’immagine-tempo dove la durata dilata l’effetto poetico dando qualità concreta alla storia. « È stata allora aggiunta la registrazione della confessione in presa diretta, un quadro fisso dove loro si sono raccontati. Avevano il desiderio di raccontarsi. Ma è accaduto perché erano mesi che ci conoscevamo, che ci incontravamo»13.
Se per il regista l’incontro nei carruggi genovesi con l’ex detenuto siciliano Enzo Motta è stato il momento che ha dato al film una svolta imprevista, la partner di lui, Mary Monaco, ne ha determinato l’indirizzo poetico14
Nel film abbiamo quest’ambivalenza rappresentativa: di Enzo prevalentemente viene filmato il suo corpo, il suo volto e le sue imprese ( pellegrinaggio scalzo alla Madonna della Guardia); mentre di Mary ne sentiamo molto di più la voce, dal tono basso ma candido, una presenza lontana che si fa sempre più vicina fino a completarsi con il partner. «Lo sguardo etico, e più semplicemente “umano” del regista, fa sì che non ci si commuove per loro, come fa la tv, non si ride di loro, come fa ancora la tv, ma ci si commuove e si ride con loro»15.
Il film è stato prodotto dalla Fondazione San Marcellino, dei gesuiti che da anni lavorano con gli emarginati, i senza fissa dimora e gli esclusi di Genova. Dopo aver visionato e apprezzato il suo precedente lavoro, la particolare inchiesta sociale Passaggio della linea, hanno deciso di commissionare a Pietro Marcello questo progetto che prevedeva la realizzazione di un film su «Genova “vista dal basso”, con gli occhi di chi vive in condizioni di emarginazione»16.
Con queste vaghe indicazioni è stata data piena libertà al regista e ai propri collaboratori permettendo così che questo film riuscisse poi ad avere realmente un’«anima, uno spirito proprio»17. La scelta ultima di raccontare la storia di Enzo e Mary è stata vista come «il seme di un’intuizione, nata da un incontro, che ha preso dall’humus dell’idea più teorica una sua forma e vita più concreta per irrompere nella nostra storia»18.
Genova come viene mostrata? Sicuramente attraverso quell’archeologia della memoria che il montaggio di Sara Fgaier ha riunito in frammenti di vita vera, impressa in diversi formati di pellicola; predominano i video industriali, e quelli ambientati al mare: i tuffi iniziali a Pegli e la suggestiva mosca cieca finale. Poi attraverso le immagini moderne dello sfondo immersivo della “piccola” storia di Enzo e Mary: I vicoli, l’aria industriale di Cornigliano, la statua di Colombo in piazza Acquaverde, e il sogno della tranquilla campagna finale dove, in lontananza possiamo osservare il porto con la lanterna. La suggestione poetica data dalla visione del film è riuscita anche grazie alla colonna sonora, curata da Marco Messina, che leggiadra sostiene il film, sospeso nel suo etere di realismo magico. Il film termina, ritornando nelle grotte di Quarto, stavolta di notte, sempre ad indicare quella circolarità, quel passaggio di linee dal giorno alla notte. I nuovi abitanti delle caverne al lume di qualche candela si apprestano ad affrontare la notte, e quindi un nuovo giorno, la voce calda di Franco Forte rimbomba sussurrante:
Il nostro viaggio termina qui
Tra i fuochi della notte e Quarto dei Mille
Lasciamo i naufraghi al riparo di queste caverne
Il passato è uscito di spalle
Restano solo tracce di memoria e forme che si dissolvono
Piccole e grandi storie
Misura della notte, del giorno
del tempo, dell’amore, dell’ombra, della luce
questo è stato, una volta in una città.
In una sovrimpressione lenta e dilatata l’immagine viene assorbita dalle onde del mare, colte in una luce scura e rossastra, un fluido onirico che non smette di scorrere, come il tempo. Subito dopo appare un vecchia pellicola con una nave avventurosa, chissà che non sia carica di nuovi naufraghi? E infine il gioco sulla spiaggia, cullati prima dal violoncello e poi da voci angeliche. Le ultime tre righe dell’epilogo, è giusto ricordarlo, sono tratte dal film di Valentino Orsini Sopraelevata una strada d’acciaio, in cui a dare voce alle parole era il poeta Franco Fortini. Goffredo Fofi in uno dei suoi ultimi saggi individua pochi registi liberi, anarchici, e tra questi c’è anche Marcello: «È su queste scie, lungo queste strade minoritarie, destinate, nella società dello spettacolo, a esserlo sempre più, che alcuni nuovi registi hanno trovato il coraggio per opere, minoritarie per scelta, di alto rifiuto e di alta poesia: Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino…»19.
Per molti aspetti, La bocca del lupo è, dunque, un film insolito e originale nella storia del nostro cinema a soggetto e non. Ma soprattutto è una lezione di poesia, un montaggio sensibile, intelligente, armonico di luoghi e volti. Di ieri e di oggi e, quietamente ma saldamente, di domani20.
1DARIO ZONTA, La valigetta nel cestino, in DANIELA BASSO (a cura di), Genova di tutta la vita, Feltrinelli, Milano, 2010, p.41
2PIETRO MARCELLO, Genova una storia d’amore, cit., pp.18-19
3ANDREA RABBITO, L’illusione e l’inganno – dal barocco al cinema, Bonanno, Roma, 2010, p.22
4SARA FGAIER, Piccole e grandi storie, in DANIELA BASSO (a cura di), Genova di tutta la vita, Feltrinelli, Milano, 2010, p.28
5MAX MANFREDI, Tra virtù e degrado , canzone contenuta in “L’intagliatore di Santi”, 2001.
6FABRIZIO DE ANDRÉ, “e più si addentrano nella città più occhi e voci gli danno dietro”, A dumenega, canzone contenuta in “Creuza de mä “, 1984.
7PIETRO MARCELLO, Genova di tutta la vita, cit., p.63
8Ivi, p.20
9Ibidem
10GIOVANNI BUTTAFAVA, Procedure sveltite, p.119
11CARLO CHATRIAN, I nuovi abitanti delle caverne, in “Duellanti”, n.60 marzo 2010
12GOFFREDO FOFI, Elogio del sottoproletariato, in “Lo Straniero”, n.116 febbraio 2010
13PIETRO MARCELLO, Genova di tutta la vita, cit., p.62
14FRANCESCA ESPOSITO, E c’era l’amore nel ghetto, nella prigione, nel ventre della città, in “Cinergie”, n.20, luglio 2010
15FRANCESCO BOILLE, Per questa realtà. Frammenti di memoria e sogni, in DANIELA BASSO (a cura di), Genova di tutta una vita, cit., p.112
16NICOLA GAY, La fondazione San Marcellino e La bocca del lupo, in DANIELA BASSO ( a cura di), Genova di tutta una vita, cit., p.52
17Ibidem
18Ivi, p.53
19GOFFREDO FOFI, Il cinema del no – visioni anarchiche della vita e della società, elèuthera, Milano, 2015, p.99
20GOFFREDO FOFI, Elogio del sottoproletarato, cit., p.75
Lo sguardo di Pietro Marcello (1pt.) https://acumedellagrume.com/2018/04/16/lo-sguardo-di-pietro-marcello-1pt/
https://www.youtube.com/watch?v=u-wEqU1WD68 (intervista retedeglispettatori)
https://www.youtube.com/watch?v=pbUqjAmkNpQ (intervista Parco cinque terre TV)
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