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Lo sguardo di Pietro Marcello (1pt.)

Scritto da Andrea Borneto 

passaggio Pelesjan.jpg

Ho fatto sempre documentari perché era il mezzo più accessibile per fare cinema. Non c’è differenza tra cinema e documentario, il documentario è semplicemente un attrezzo, poi dipende come lo utilizzi questo strumento. Il documentario ti rende libero, ti lascia ampiamente libero1.

Pietro Marcello ha un modo di fare cinema est-etico. Estetico perchè dalla sua formazione pittorica ha acquisito un forte senso compositivo dell’immagine, comporre è tutto, come anche avere una visione del mondo da poter raccontare. Senza di esso è come trovarsi di fronte ad un esercizio di stile senz’anima. Etico, che è dentro e fa necessariamente parte dell’est-etico, perchè non cerca compromessi e si relaziona genuinamente con il racconto, o meglio con chi viene raccontato. Un’etica che necessariamente scaturisce dall’interazione con il reale ma che attraverso il mezzo estetico (il cinema) ha la capacità di farsi poesia. La po-etica di Pietro Marcello unisce questi due elementi, la bellezza compositiva dell’immagine (estetica) e lo sguardo autentico di chi si racconta in quell’immagine (etica).

Se lo sguardo deve mostrare le cose è perché questo mostrare definisce il cinema con la sua capacità di dare parola al mondo in quanto mondo. Il dire “tacito” delle cose può essere restituito solo dallo sguardo che mostra e non prevale sul reale, lo rivela, lo disvela e non lo costruisce. […] la mdp, il cui compito (etico in senso proprio) non è quello di costruire un altro mondo illusorio, ma è quello di disporsi all’incontro con quello reale, con il qui ed ora2.

Sotto questo punto di vista eredita una pratica neorealista, di matrice fortemente rosselliniana: un approccio non solo tecnico e pratico al reale ma appunto etico. Nel dopoguerra i neorealisti si erano spinti a girare fuori dai set per ricercare nelle strade cittadine distrutte il modo giusto e più vero per raccontare il Paese, così anche P.M. si immerge nella realtà in cui decide di girare.

il neorealismo non ha tanto posto in termini generici una questione della realtà, quanto quella della connessione fra questa e lo sguardo, il loro contemporaneo emergere dal tessuto del visibile3.

Nel farlo però cerca un rapporto di rispetto verso coloro che incontra, lasciando che siano loro a raccontarsi, proprio per evitare che con il « fare cinema si compia un atto di violenza»4. Lo stesso cineasta ammette come questo istinto egoico e presuntuoso perseguiti gli autori di cinema:

Fondamentalmente il regista è un essere alquanto egoista, e il suo volere fare qualcosa per gli altri è solo un pretesto per giustificare l’elemento ludico del fare cinema. Questo strano vizio ci appaga ma, nonostante tutto, il nostro impegno e la nostra tenacia si consumano nel realizzare l’opera, […] mentre le immagini continuano a scorrere sfidando il tempo in parallelo con la nostra esistenza, e quando diventano passato e memoria visiva, quel che resta è soltanto la vanità dell’essersi sentiti protagonisti5.

Il tempo e la memoria sono cifre essenziali nei film del regista casertano. Il tempo è quello della realizzazione che si fa esperienza, esperienza filmica, il film si crea lungo la strada, non c’è una scrittura preparatoria, coglie l’immanente realtà in maniera non preordinata. Il tempo serve anche per far sì che si crei un rapporto di fiducia con i protagonisti, di modo che possano esprimersi e sentirsi liberi. In questo processo il regista vive insieme agli attori il film, ma dal racconto, sebbene si percepisca la sua presenza, rimane distaccato e lascia al centro la storia e le immagini.  L’azione artistica di Marcello è quella di intuire dall’interno, ricercare e vivere la situazione pone delle possibilità, esse vengono coltivate attraverso la relazione con i soggetti da narrare, divenendo egli stesso soggetto.

« Il corpo in movimento porta i segni del passato sotto forma di esperienze acquisite e del futuro sotto forma di possibilità d’azione»6

Il tempo allora assume anche un valore più ampio, tenendo conto dell’idea bergsoniana che la durata è la cifra di fondo della vita. Essa indica la caratteristica di quel tempo interiore che dura di più o di meno a seconda di come vivo, questa è una percezione qualitativa del tempo che proviene dall’interno.

La dinamica della vita è tempo, essa è qualitativamente temporale, non c’è uno stato fisso ma è sempre in movimento, ci rispecchiamo in quello che Bergson definisce lo slancio vitale. La vita perciò è uno slancio e la durata, che le dà forma, è invenzione, in quanto la si conosce dall’interno. Quest’idea è anche profondamente baziniana:

immagine come rivelazione pre teorica della realtà. Il realismo baziniano è di matrice mearleau-pontyana e l’immagine non è cosa, ma contatto percettivo con il mondo, rivelazione e partecipazione al reale prima della sua “traduzione” logico-discorsiva7.

Che è del resto riconducibile all’immagine-tempo di Deleuze:

il cinema da parte sua, filma direttamente un reale attuale […]. Il suo fondamento meccanico avrebbe prevalso, secondo Bazin, grazie al suono, che conferisce all’immagine un «peso di realtà supplementare», per Deleuze, grazie all’emancipazione delle immagini e dei suoni di fronte alla logica del movimento. […] il filosofo, decisamente bergsoniano, identifica la logica dell’immagine-movimento con quella naturale della percezione. L’immagine-tempo guarda in direzione della durata, verso il tempo della coscienza, come fa l’immagine sonora secondo Bazin quando il flusso del rappresentato prende il sopravvento sugli accidenti della rappresentazione8.

Con questo genere di film si rischia di arenarsi, non essendo organizzato e pre-impostato, ma siccome si ha la libertà di muoversi, in realtà il rischio non è tale in quanto le fasce di possibilità arrichiscono il film e lo rivoltano. Ogni imprevisto nella strada del film è una potenzialità narrativa provvidenziale che forma il film, lo muta in un percorso svincolato da chiusure produttive drastiche.

L’imprevisto è linfa, è la parte alchemica del cinema. Io sempre più credo che siamo stati salvati tutti da Rossellini9.

È un lavoro di intuito, di ascolto, di percezione degli stimoli, una sorta di «innamoramento verso qualcosa che ti fa raggiungere il film»10. Alla base c’è sempre un’inchiesta, un punto di partenza su cui lavorare, ed è innegabile che anche in questo tipo di cinema ci sia una consapevolezza e quindi un’artificiosità narrativ che anche solo con l’intenzionalità di tracciare sguardi e scorci di realtà pone la costituzione di un percorso i cui margini (tra realtà e finzione), nella visione in sè, sono difficili da riconoscere. Ma il puro cinema di regia in confronto è una routine programmatica, anch’esso coi suoi imprevisti ma sempre fedele ad un binario rigido dato dalla scenggiatura o dall’ego del regista. Nel cinema documentario del reale invece si gira in continuità costruendo la storia in corso d’opera, il film fondamentalmente viene fatto e talvolta riscritto in fase di montaggio. Possiamo parlare allora di una post-scrittura, infatti i ruoli sono in continua sovrapposizione. Proprio perchè un film è tutto già scritto si presenta senza un vissuto, senza un’anima, perciò è soprattutto con il montaggio che la storia prende forma. È nel rapporto di imprevedibilità , con il paesaggio e con le persone che si incontrano, che si fonda la forza reale di questo modo di fare cinema.

la realtà umana è in primo luogo azione, cioè modalità di relazione fra l’uomo e il mondo, fra l’uomo e gli altri uomini. […] l’ “esperienza umana” ha forse solo il privilegio di essere il mezzo migliore per l'”autorivelazione” della realtà11.

Già da Il passaggio della linea (2007) possiamo notare queste particolarità. Il film è un intreccio di treni, di voci, di volti, di storie che si sovrappongono: i meridionali in cerca di lavoro, gli stranieri, i pendolari. La macchina da presa cattura i panorami dal finestrino nell’effetto fluido del susseguirsi delle stazioni, dall’interno delle carrozze dei treni verso l’esterno (il mondo). Un viaggio continuo che percorre tutta l’Italia a bordo degli espressi notte, ormai quasi del tutto estinti. In un’inquadratura notturna dal finestrino del treno si intravede una città lontana illuminata, il movimento del treno e la sfocatura dell’obbiettivo renderanno quelle luci una linea luminosa indistinta: « nel cinema le “linee” non fondano e non definiscono più le forme del reale ma diventano traiettorie che rivelano il reale stesso e il suo farsi»12.Il tempo che trascorre tra la notte e il giorno mostra le persone che abitano quel luogo transitorio (il treno), chi emigra, chi ritorna, chi lo fa per lavoro. E poi c’è chi sui treni ci vive, come Arturo Nicolodi, che è un po’ la guida, l’anima del film, un anziano che è stato uno dei primi europeisti nonché promotore di una cittadinanza globale. Un duro idealista capace di portare avanti un coraggioso sciopero della fame dopo essere stato arrestato, un uomo libero che non è mai stato schiavo di niente e di nessuno. Un uomo che per non rendere più conto ad altri ha deciso di pagare al posto di un affitto un abbonamento del treno, rendendo il nomade mezzo la sua nuova casa. Il treno notte come ideale di unione egualitaria tra le genti, una casa comune che collega i luoghi di una nazione partecipando alla Storia tra le storie. Arturo racconta alla macchina da presa la sua vita ed espone le sue idee, mostra tutto il suo carattere attraverso la lucentezza dei propri occhi. Tra il flusso di parole c’è una frase che è totalmente spiazzante per quanto è forte: « ho sempre seguito la corrente del destino, e il destino mi ha portato a fare oggi il pezzente, il più potente del mondo». Siamo qui di fronte ad una limpida espressione di quello che Goffredo Fofi chiama «L’elogio del sottoproletariato»13, titolo di un suo articolo del 2010.  Nel film il silenzio di Pelešjan (2011) si presenta più difficile il racconto di chi viene raccontato, poichè il regista armeno protagonista della pellicola, per scelta non parlerà; saranno le immagini a farlo, a seguirlo, a mostrarlo, raccontandolo in un modo che le parole non possono esprimere.

«Pelešjan ha sempre creduto che con le parole si compie un atto di violenza, che la pura e semplice parola umana, inventata per comunicare, non sia capace di trasmettere quello che può o potrebbe contenere un film. A volte mi sono sentito impotente di fronte al suo rigore e al suo silenzio; lo abbiamo inseguito come nel cinema di guerra, filmavamo pochissimo,due minuti, cinque, raramente due rulli al giorno, quello che bastava per imprimere il suo viso ma non la sua voce»14.

Marcello apparirà in un inquadratura, un veloce taglio sugli occhi, che si mischia nell’eterogeneità di altri volti e altri sguardi. Interverrà anche con la propria voce a commento di alcuni posti ritrovati da Pelešjan: «come sempre è l’autore che porta la storia, Artavazd Pelešjan ci ha condotto lui dove voleva, e noi siamo stati felici di seguirlo laddove ci ha offerto la sua presenza e la sua assenza». È l’esperienza di un incontro, dell’incontro con un proprio maestro estetico. l’inizio del film che propone la definizione del montaggio a distanza, coniato dallo stesso Pelešjan:

l’esperienza di lavoro sui miei film mi ha portato alla convinzione che il mio interesse fosse altrove, che l’essenza principale del lavoro di montaggio consista non nell’attaccare i fotogrammi uno all’altro ma nel separarli, quindi non nella loro giuntura ma piuttosto nella loro distanza; un montaggio così lo definisco “montaggio a distanza”. La cosa più importante è che gli elementi di riferimento come particelle cariche interagiscono a distanza e creino un campo emotivo attorno all’intero film.

Un’idea di montaggio che ha molto influenzato Pietro Marcello e la sua montatrice Sara Fgaier. Anche il loro ultimo lavoro Bella e perduta (2015), che nasce da un progetto che in corso d’opera si trasforma in tutt’altro, è permeato da tutte queste componenti, la cosa che stupisce di quest’ultima opera, girata in pellicola scaduta, è il repentino cambiamento di sguardo a circa metà del film, causato da un imprevisto quale la morte del guardiano Tommaso Cestrone. Dal fatto contingente ci si sposta in un mondo fantastico con Pulcinella e un bufalo parlante, che portano avanti una narrazione che si fa più classicamente costruita, rimanendo però magicamente reale. Il presente scivola via e sfugge in una nuova dimensione che invece che passata è parallela, allorché la fantasia dialoga apertamente con il reale. L’approccio poetico, “autoriale” di Pietro Marcello incontrerà Genova nel film La bocca del lupo (2009). Questo film assurge al compito di raccontare la città in una chiave diversa, dove alla base non ci sarà la cronaca, la realtà sociale ma bensì un’incontro significativo, più profondo e radicale, portato avanti dall’etica della forza del reale. Una forza del reale e non della realtà, come l’ha ben definita Roberto De Gaetano durante il suo intervento al convegno di Torino Intorno al Neorealismo del dicembre 2015. Il concetto di realtà fa parte della sfera della cronaca, del dato oggettivo, riguarda la vista e l’azione dell’uomo, rimanda ad una risposta di pancia o d’intelletto dell’essere umano; mentre il reale è qualcosa di più interiore, richiama una relazione più profonda, coinvolge l’anima e il cuore pulsante. Goffredo Fofi individua pochi registi liberi, anarchici, e tra questi c’è anche Marcello: «È su queste scie, lungo queste strade minoritarie, destinate, nella società dello spettacolo, a esserlo sempre più, che alcuni nuovi registi hanno trovato il coraggio per opere, minoritarie per scelta, di alto rifiuto e di alta poesia»15.

Note:

1PIETRO MARCELLO, intervista per www.retedeglispettatori.it, 2012

2ROBERTO DE GAETANO, Il visibile cinematografico, Bulzoni, Roma, 2002, p.74

3ROBERTO DE GAETANO, Il visibile cinematografico, cit., p.20

4PIETRO MARCELLO, Genova, una storia d’amore, “Lo Straniero”, n. 116, febbraio 2010, in DANIELA BASSO (a cura di), Genova di tutta la vita, Feltrinelli, Milano, 2010, p.18

5Ibidem

6ROBERTO DE GAETANO, Il visibile cinematografico, cit., p.52, parlando di Materia e memoria di HENRI BERGSON.

7ROBERTO DE GAETANO, Il visibile cinematografico, cit., p.38

8DOMINIQUE CHATEAU, Introduzione all’estetica del cinema, Lindau, Torino, 2007, p.109

9PIETRO MARCELLO, Intervista a Pietro Marcello a cura di EMILIANO MORREALE, in “Il cinema di Pietro Marcello – Memoria dell’immagine, Cineteca Bololgna, 2017 p.10

10PIETRO MARCELLO, intervista per www.retedeglispettatori.it, 2012

11 ROBERTO DE GAETANO, Il visibile cinematografico, cit., pp.103-104-105

12 ROBERTO DE GAETANO, Il visibile cinematografico, cit., p.92

13GOFFREDO FOFI, L’elogio del proletariato, in “Lo Straniero” n.116 febbraio 2010

14 PIETRO MARCELLO, nel film il silenzio di Pelešjan (2011)

15GOFFREDO FOFI, Il cinema del no – visioni anarchiche della vita e della società, elèuthera, Milano, 2015, p.99

Altri Testi:

 HENRI BERGSON, L’Evoluzione Creatrice 

ANDRè BAZIN, Che Cos’è il Cinema

– GILLES DELEUZE,  L’Immagine-Tempo

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