C’è una celebre massima attribuita a J. Robert Oppenheimer che paragona gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica a “due scorpioni in una bottiglia, entrambi in grado di uccidere l’altro, ma soltanto a rischio della propria vita”: è un’allegoria che condensa alla perfezione la situazione di stallo dell’Era Atomica, l’idea di due forze opposte, rappresentate dalle due indiscusse superpotenze di allora, arrivate alla fase più critica del loro dialogo e a un equilibrio sempre più difficile da mantenere di fronte a un crescente stato di tensione.

Per molti versi il cinema di Christopher Nolan può essere visto nello stesso modo, come la collisione tra due identità apparentemente inconciliabili che ha portato non solo al consolidamento di una cifra stilistica fra le più riconoscibili della scena contemporanea, ma anche – come testimoniato dal nuovo corso del blockbuster d’autore di oggi, saga di 007 in primis – a un’influenza imprescindibile su tutta l’industria audiovisiva su larga scala: da una parte, dunque, l’indole del regista di concetto, promotore meticoloso – sin dal debutto di Following – di un cinema-congegno sintetizzabile in calcoli, schemi geometrici e formule algebriche; dall’altra, incoraggiata dalla sua promozione al mainstream avvenuta con Batman Begins, l’ambizione dell’innovatore tecnico, determinato ad alzare fino ai limiti del fattibile, di progetto in progetto, l’asticella del kolossal e, più in generale, di ciò che è possibile rappresentare e ricreare per il grande schermo.

È un dualismo che Nolan cerca di esprimere sin dalla realizzazione di quello che resta uno dei suoi film più intimi, quel The Prestige che vedeva scontrarsi, per l’appunto, l’illusionista “artigianale” Borden e il mistificatore tecnologico Angier, alter ego speculari e complementari di un giovane film-maker in via di affermazione scisso tra la purezza concettuale degli esordi e la tentazione dell’adesione al circuito maggiore; un contrasto che, con la parziale eccezione della forzata conformità ai canoni supereroistici che ha inevitabilmente condizionato la trilogia del Cavaliere Oscuro, si è ripetuta pari pari, ora nel bene, ora nel male, per tutte le tappe della sua carriera.

In questo senso, Oppenheimer è la svolta, dopo le esagerazioni di Interstellar, il rigenerante ridimensionamento di Dunkirk e il punto di saturazione raggiunto nell’involontaria, micidiale autoparodia di Tenet, che traghetta la filmografia del cineasta britannico verso altri lidi, che rinnova una volta per tutte i suoi presupposti e la loro traduzione per immagini, ed è curioso che ciò avvenga con la sua creatura più vicina alla forma convenzionale dai tempi di un lavoro su commissione come Insomnia: cosa che, in verità, è tale solo sulla carta, perché il ritratto del padre dell’atomica ha a più a che fare con la struttura free-form del Bird eastwoodiano che con il logoro modello del biopic celebrativo a misura di Academy in stile – tanto per rimanere in ambito scientifico – The Imitation Game o La teoria del tutto, così come la doppia cornice processuale che lo inquadra ha ben poco da spartire con i codici del courtroom drama tradizionale.

Il blocco principale della pellicola, ossia la cronologia degli eventi che si dipanano dagli anni giovanili a Cambridge alle immediate conseguenze del bombardamento nucleare sul Giappone, è infatti regolarmente inframmezzato da due ulteriori linee narrative: la prima, “Fissione”, si concentra sull’udienza con cui, nel 1954, usando come pretesto le frequentazioni filocomuniste di gioventù, la Commissione per l’Energia Atomica degli Stati Uniti revocò a Oppenheimer il nulla osta di sicurezza, decretando di fatto la fine della sua attività scientifica e della sua vita pubblica; la seconda, antiteticamente intitolata “Fusione” e girata interamente in bianco e nero, si focalizza invece sulla convocazione al Senato che, un lustro dopo, costò la carica di Segretario al Commercio a Lewis Strauss, l’uomo che, motivato da mere antipatie personali, aveva architettato la decadenza di Oppenheimer.

Non siamo, quindi, al cospetto del “film più astratto di Christopher Nolan”, come improvvidamente suggerito da molta critica d’oltreoceano, magari suggestionata dai fulminei squarci visivi sul mondo quantico che si spalanca agli occhi del fisico newyorkese, ma, anzi, davanti al suo risultato più concreto e preciso, a cui probabilmente ha giovato altresì la scelta di limitare per quanto possibile la “romanzizzazione” delle vicende e di seguire l’ossatura di un testo specialistico e onnicomprensivo come la biografia, premiata col Pulitzer, American Prometheus di Kai Bird e Martin J. Sherwin, anche a costo di alienarsi quel pubblico che si era abituato, con gli anni, a identificare in Nolan il grande riformatore, ancorché di indirizzo intellettuale, del genere action.

E, nonostante il record personale delle tre ore nette di durata e l’impiego del formato IMAX persino per le porzioni non a colori – cosa per cui la Kodak ha dovuto approntare una pellicola apposita – non siamo neanche, per usare un altro termine abusatissimo dagli estimatori, alla presenza dell’opera più “spettacolare” dell’autore londinese, visto che, per quanto riguarda la sezione principale, si privilegiano i campi medi e gli interni diurni, mentre per le due sottotrame di corredo gli spazi si restringono ancora di più e raramente ci si discosta dai primi piani: l’unico episodio propriamente “spettacolare” è quello dello svolgimento del Trinity Test che fa da cesura fra le due metà del film, un saggio di suspence di quindici minuti che lascia a bocca aperta per progressione di montaggio, abilità ad intersecare le prospettive dei vari personaggi in scena e, complice la decisione di ricorrere, come da tradizione, all’effetto pratico piuttosto che alla grafica computerizzata, capacità di porre lo spettatore di fronte a qualcosa, più che di inedito, di veramente inaudito.

In Oppenheimer, dunque, c’è molto più dei due cardini dell’artificio nolaniano che abbiamo evidenziato in apertura e che abbiamo ritrovato in quest’ultima fatica: c’è la perizia del narratore che sa addentrarsi nelle piccole e grandi pieghe della Storia, soprattutto in quel primo atto diviso tra lotte sindacali, salotti intellettuali, simpatie socialiste e protagonisti del Novecento di passaggio come Niels Bohr e l’attivista Jean Tatlock che riporta alla mente l’antecedente di Reds di Warren Beatty; c’è, come mai prima d’ora, se non nei melassosi sproloqui di Interstellar e nei macchinosi postulati di Tenet, un ricorso alla parola che sa davvero trainare il flusso degli avvenimenti invece di esserne pedante enunciazione, che sa rendere avvincente, senza semplificare – e contando sui crescendo del contributo fondamentale del commento musicale, pressoché ininterrotto, di Ludwig Göransson -, quella rete di intrighi, di intese e di intendimenti alla base di un’iniziativa titanica come il Manhattan Project, nella stessa maniera in cui Spielberg ha fatto del suo Lincoln uno studio sull’arte del compromesso; c’è, insomma, dopo un quarto di secolo di attività trascorso a trattare – con esiti spesso molto felici – il medium come un elaboratissimo giocattolo, il desiderio di un cinema maturo, adulto, consapevole, proteso verso qualcosa che vada oltre la priorità dell’intrattenimento e che riesca a ritrovare il contatto con quella realtà da sempre trasfigurata dal piano della metafisica.

A trarre beneficio da questa evoluzione, oltre alla resa del racconto, è pure la scrittura dei personaggi, non più semplici funzioni in balia degli schemi delle più recenti elucubrazioni del regista, bensì figure complesse e credibili, su cui naturalmente troneggiano l’antieroe, a metà fra il profeta e il titano, magnificamente interpretato da Cillian Murphy – strepitoso, in particolare, nella splendida sequenza dei festeggiamenti post-Hiroshima, in cui la falsa sicumera del discorso patriottico malcela tutta l’angoscia di chi è conscio di aver innescato l’Apocalisse – e, dopo tanti anni a (svogliato) servizio del Marvel Cinematic Universe, un bravissimo Robert Downey jr. nei panni di Strauss, che domina totalmente il segmento “Fusione”.
Ma il cast di contorno non è da meno, tra l’umbratile Albert Einstein di un ormai invecchiato Tom Conti e l’infido interrogatore Roger Robb di un sorprendente Jason Clarke, la divertita fugace apparizione di Gary Oldman, che compendia in tre minuti scarsi tutta la meschinità del Presidente Truman e, autentico traguardo per Nolan – cui si è sempre rimproverata la dimensione prettamente maschile del suo immaginario -, il ruolo chiave di Kitty Oppenheimer, moglie del protagonista nonché voce della sua coscienza, incarnata da un’intensa Emily Blunt, non solo la prima figura femminile davvero sviluppata e sfaccettata della sua produzione, ma anche cuore stesso del film.

Certo, nel profilo dell’uomo che inventò la bomba atomica albergano tutte le questioni etiche e le ammissioni di responsabilità di colui che, all’indomani dello sgancio di Fat Man su Nagasaki, affermò che i fisici avevano “conosciuto il peccato, una conoscenza che non si può perdere”: che cos’è, però, Robert Oppenheimer, se non un regista chiamato a dirigere il progetto di una vita intera, alle prese con la materializzazione delle proprie visioni (“il mio lavoro è così astratto” e “la teoria arriva solo fino a un certo punto”, dice), con la compartimentazione e con la gestione delle maestranze più disparate e incompatibili, con la paura di sbagliare alternata all’entusiasmo di sperimentare e con un prodotto finale che può venire tolto di mano dal committente che può arrivare a farlo suo e a farne ciò che ritiene?
Che cos’è il Laboratorio di Los Alamos, quel finto villaggio sperduto in mezzo al New Mexico che, nelle fasi finali dell’approntamento degli ordigni, arrivò ad accogliere 6000 persone tra scienziati, militari, impiegati e famiglie al seguito, se non un gigantesco set cinematografico?
E che cos’è il Trinity Test, se non il money shot dalla cui riuscita dipende il successo di tutta l’operazione?

“Chi vorrebbe mai giustificare la propria intera vita?”, si chiede Oppenheimer all’inizio del processo-farsa che lo vedrà in veste di imputato all’interno di un grottesco sgabuzzino, attorniato da un gruppo di funzionari che non vedeva l’ora di fare terra bruciata di tutti gli scrupoli che avrebbero costituito un ostacolo ai suoi interessi e tradito, a turno, dagli amici e dai colleghi di un tempo incapaci di vedere al di là delle loro rivendicazioni.
“Nessun uomo dovrebbe mai essere giudicato per aver espresso opinioni forti”, afferma ancora, in chiusura, uno dei pochissimi collaboratori rimastigli leali, il professor Vannevar Bush, prima che venga emessa la sentenza.
È ovvio, scegliere di raccontare una storia come questa e in questo modo così moderno, problematico e financo cubista – non è un caso che Oppenheimer venga inquadrato mentre legge La terra desolata di Eliot, ascolta La sagra della primavera di Stravinskij o ammira una galleria di tele di Picasso – basterebbe già per sé e non avrebbe bisogno di “legittimazioni” di sorta, ma non sono forse riflessioni come queste a restituire la difficoltà, oggi, del ruolo dell’artista?

Una replica a “Oppenheimer [Christopher Nolan] – ANTEPRIMA”

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